Il lotto 285 – capitolo sessantuno

”Abbiamo sempre la sensazione di essere circondati dalla nostra anima, ma non come da una prigione immobile; purtroppo siamo come lei trasportati in un perpetuo moto per sorpassarla, per giungere all’esterno, con una specie  di scoraggiamento, sentendo sempre intorno a noi quella sonorità identica che non è eco  del di fuori ma il risuonare di una vibrazione interna.”

Marcel Proust – La strada di Swann

Ma non trovavo già strano che avessi trovato l’agognata sigla sul retro della foto soltanto come indicatore progressivo di qualcosa all’ombra di una bottega di rigattiere? E poi come mai la foto, presumendola di recente realizzazione, avere un numero così elevato, visto anche il valore quasi nullo di essa? E quanta strada avrebbe dovuto percorrere  per approdare in una bottega di antichità? Ma pensai che a quel punto che sarebbe stato meglio  chiedere al padrone se avesse conosciuto la persona che gliel’aveva portata e lui, quasi sogghignando, indicò me stesso. Quindi quella sigla sarebbe dovuta essere solo il numero progressivo di stampa.

   Che cos’era quindi il Lotto? Non una semplice riproduzione tecnica di un’immagine, vista anche la risonanza che questa aveva avuto nell’ultimo secolo. Io certo ero un collezionista di opere d’arte ma non avrei mai pensato che quella cifra si riferisse all’oggetto in sé ma a qualcosa di più grande, di più poderoso, di luoghi, di cose statiche o in movimento e non un numero di spedizione (congetturavo ancora) o ricevimento di merci, o altro genere di cose e che ci fosse stato un problema nella loro distribuzione.  Mi venne allora in mente la sequenza di sogni che avevo fatto nell’arco di quegli anni di lotta, sia riguardanti agglomerati di case, di fabbricati, sia di cose in movimento come treni e autotreni, o di sigle  riguardanti luoghi statici, come prigioni o uffici o le loro suppellettili, ma nessun numero ragionevolmente si prestava a un tale insieme di  cose. Non avevo preso in considerazione i musei e le biblioteche ma le loro opere erano solite essere suddivise in settori, in stanze. No, doveva essere qualcosa di ingegneristico (i fabbricati) o di impenetrabile come il cemento (i blocchi).

   Con questi tormentosi pensieri tornai a casa. La mia compagna (stentavo ancora definirla mia moglie) era fuori perché era andata a trovare  una sorella ammalata e non sarebbe tornata tanto presto così ebbi tutto il tempo di prepararmi una cena improvvisata, di mettere a posto qualche carta che mi sarebbe stata utile per la mia  ricerca sugli ex militanti che erano stati impegnati nella lotta di liberazione, mi lavai e mi misi subito a letto. Mi era già noto  il procedimento che avrei seguito per addormentarmi. Avrei dapprima letto qualcosa, poi un sognare ad occhi aperti nel quale avrei ripercorso gli ultimi avvenimenti della giornata. Ma sapevo anche cosa mi sarebbe capitato una volta sotto le coperte. Cadevo subito in un deliquio in cui confusi pensieri si accavallavano, dandomi l’impressione di star già sognando ma quella era solo la premessa. Le prime volte mi sentivo come avvolto da un’indistinta sequenza di immagini senza un apparente senso ma poi, con uno sforzo immane, cercavo di organizzare quella massa fatta di singole visioni in un senso logico, poi mi perdevo in fantasticherie ma poi, ecco la cosa strana, mi si parava davanti una scena singola, con la quale avrei dato l’avvio al vero sognare. Era come vedere i titolo  di testa di un  film di cui ero allo stesso tempo attore e regista., ed ancor più sceglievo io stesso l‘argomento. Ogni volta era una storia diversa che seguivo e interpretavo in maniera diversa, quasi un intero film, interpretato da attori veri, che sceglievo di volta in volta a mio piacimento. La cosa più strana di quei sogni era che, una volta svegliatomi per qualche motivo impellente, e riaddormentandomi poco dopo, la sequenza  riprendeva come se non si fosse mai interrotta, anzi ero io che sceglievo dove e quando riprenderla. Anche questa volta avrei scelto, come uno spettatore esigente, una storia che ricordava fatti da me non vissuti realmente, dei fatti talmente tragici che avrei stentato a volgerli in una narrazione lineare e a distaccarmene quando avessi voluto quando si fossero dimostrati troppo veritieri anche per un sogno.

   Già meno interiore al mio corpo di  quella  vita dei personaggi veniva poi proiettato davanti a me il paesaggio. Era  come se avessi davanti a me un altro libro e da sotto le pagine apparisse un contorno, all’inizio poco visibile, ai personaggi che continuavano a svolgere l’azione, un qualcosa di apparentemente ornamentale ma che poi diventava parte integrante  del sogno. Così il sogno era completo e ne potevo usufruire come e quando volevo.

   Una volta mi erano comparsi davanti dei corpi maschili nudi, ognuno con una erezione diversa. Ad un certo punto spiccava fra essi un uomo con un’erezione enorme che veniva preso come termine di paragone verso gli altri nudi. La scena era talmente realistica che le mie mani avevano preso a stringere delle parti di lenzuolo raggomitolati, accorgendomi subito dopo di avere fra le mani solo aria. Un altro (il più recente) rappresentava una sorta di teatrino pluricolorato ma senza palcoscenico né quinte. Vi si muovevano indaffarate figure che dovevano essere degli impiegati che erano costretti a passare, a volta scontrandosi, attraverso lo stretto bordo della scena. Pur avendo l’aria di un circo non v’erano strumenti di gioco né personaggi divertenti, anzi l’ambiente  sembrava più un luogo di lavoro in confusione, nel quale i protagonisti cercavano di afferrare fogli, cartelle ed altro materiale d’uso e tentare di gettarli nei cestini. Su di un lato dello stretto camminamento, appesa ad un pannello e non perfettamente in asse pendeva la scritta “Material Job”.

di Maurizio Chiararia

(continua)

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