Autonomia differenziata: un altro “porcellum”?

Alla fine di dicembre il ministro per gli affari regionali Calderoli ha presentato il suo disegno di legge per l’autonomia regionale differenziata.

L’autonomia differenziata può essere condivisa, discussa o avversata, ma mi allarma il fatto che il disegno di legge sia stato preparato da Calderoli. Pover’uomo, non voglio demonizzarlo, ma ho due ricordi indelebili di lui.

Il primo risale al 2006, quando il politico leghista mostrò a un telegiornale una caricatura di Maometto stampata sulla maglietta che indossava. La satira è un diritto sacrosanto, per il quale 12 persone sono morte nell’attentato al Charlie Hebdo, e Calderoli non sospettava certo che per il suo gesto ne sarebbero morte altre 17 in Libia. Ma appunto per questo si è dimostrato politicamente alquanto improvvido, se non proprio naïve.

Si è dimostrato invece molto furbo nel preparare la legge elettorale che porta il suo nome e che lui stesso giudicò “una porcata”, definendo così – involontariamente ma icasticamente – anche la politica sua e della maggioranza che approvò la legge.

Adesso ha preparato un nuovo disegno di legge molto importante, e mi chiedo se in questa sua nuova fatica prevalga l’ingenuità o la furberia che ha precedentemente dimostrato. Volendo essere più espliciti, se sarà un’altra pericolosa castroneria o un’altra furbissima porcata. 

Il progetto di legge sull’autonomia differenziata delle regioni, sulla quale da molto tempo si dibatte, ha diverse radici.

Una è costituita dal 3° comma dell’articolo 116 della costituzione, che prevede “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia…. su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119”. Il comma fu introdotto nel 2001, a fine legislatura, dalla maggioranza di centro-sinistra, e fu approvato con un referendum costituzionale cui partecipò uno sparuto 34,1% del corpo elettorale. Davvero una riforma nata male, ingiustificata e irrazionale, che ha modificato la Costituzione con il consenso, a conti fatti, di appena il 22% degli italiani. Infatti non è previsto un quorum per tali consultazioni: una scelta quanto mai inadeguata alla loro importanza.

Una seconda radice, ben piantata nella fertile mente dei leghisti, è il pregiudizio che il “nord” regga il peso economico del “sud”, perché il “nord” produce e il “sud” assorbe gran parte delle risorse.

In realtà non è così. Il sistema Conti Pubblici Territoriali (CPT) dell’Agenzia per la Coesione Territoriale ha calcolato che sul totale della spesa per la pubblica amministrazione (comprese anche regioni, enti locali ed enti previdenziali) il Centro-Nord assorbe una quota pro capite di 13.400 euro l’anno, contro i 10.900 del Sud. Se nel conto si include anche il settore pubblico allargato (ENI, Ferrovie dello Stato, società municipalizzate, ecc.) il divario arriva a quasi 4 mila euro a persona, con una spesa pubblica pro capite al Centro-Nord pari a 17mila euro e al Sud pari a 13.300 (dati del 2019). In sintesi: un cittadino residente al centro-nord costa alla collettività molto più di uno che risiede al sud.

Il progetto di riforma si fonda dunque su basi poco solide: una riforma costituzionale che gli italiani non hanno condiviso e un pregiudizio ingiustificato.

Ma i meccanismi previsti nell’iter di approvazione dell’autonomia differenziata di una regione nascondono le tipiche furbate alla “porcellum”.

Infatti, qualunque nuova autonomia regionale, non può portare a disuguaglianze nei «diritti civili e sociali» garantiti dalla Costituzione. Per implementare tale garanzia, dovrebbero essere preventivamente stabiliti dei “livelli essenziali di prestazione” (Lep) validi su tutto il territorio nazionale. La proposta di legge prescrive invece che questi siano stabiliti dopo la sua approvazione (entro un anno). Ma prevede anche che, se ciò non avvenisse, l’autonomia differenziata potrebbe comunque essere approvata: il finanziamento sarebbe accordato sulla base della spesa storica di quella regione nello specifico ambito in cui viene richiesta l’autonomia.

Capito l’inghippo? Sono disposto, infatti, a scommettere che i Lep non saranno mai stabiliti per tempo e che, di conseguenza, la “spesa storica”, generalmente molto più alta nelle regioni del nord, sarà indefinitamente mantenuta, facendo così crescere ancora il divario tra nord e sud. È bene ricordare, tra parentesi, che il ricorso alla spesa storica – cioè non basata su valutazioni eque ed oggettive, ma sugli squilibri vigenti, di cui si diceva sopra – è considerato da più osservatori del tutto incostituzionale. Al contrario, riequilibrare la spesa nelle diverse regioni con l’attuazione dei Lep vorrebbe dire ridurre la spesa pro capite nelle regioni del nord: e non credo che questo sia nei desideri della lega. Forse per loro è meglio attuare l’autonomia differenziata prima dei Lep e comunque senza Lep.

Secondo il direttore della Svimez, Luca Bianchi, «sono oltre venti anni che si attende la definizione dei Lep: i livelli essenziali di prestazione restano indispensabili per il superamento del criterio della spesa storica, che sino ad oggi ha cristallizzato i divari di servizi nel nostro Paese». D’altronde stabilire i Lep in un anno è anche tecnicamente difficile, perché non si tratta di fare il mero elenco di quei «diritti civili e sociali», ma di calcolare in modo specifico i costi e le risorse necessarie, rispettando il dettato costituzionale, richiamato anche dal ddl Calderoli all’articolo 7 comma 1, che recita: “dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non derivano maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Non è impresa da poco e, difatti, il ddl prevede di poterne fare a meno.

Inoltre, non si richiede che per ottenere l’autonomia una regione debba avere i conti in ordine o non sia stata commissariata in precedenza per la gestione delle materie di cui fa richiesta. Per esempio la sanità: anche secondo le recenti dichiarazioni del leghista Fedriga, le regioni italiane sono globalmente in deficit per tale settore. Con l’autonomia, la Lombardia e il Lazio potrano continuare – autonomamente – a far crescere la sanità privata, e la Calabria – altrettanto autonomamente – a far aumentare la migrazione sanitaria. E già, perché tutte le regioni possono chiedere e ottenere l’autonomia differenziata, indipendentemente dalle capacità dimostrate.

Sono poi molti gli interrogativi e i dubbi nel merito dell’autonomia differenziata: così tanti che, nell’impossibilità materiale di trattarli tutti nello spazio di queste righe, farò solo alcuni esempi.

È prevista l’autonomia per i “porti e aeroporti civili” e per le “grandi reti di trasporto e di navigazione”, sebbene sia evidente che si tratti di infrastrutture di portata nazionale se non sovranazionale, ma certamente non di ambito regionale.

L’autonomia può interessare la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi anche se è difficile immaginare che l’ambiente non sia un unicum a livello addirittura planetario. E poi, molti ecosistemi sono condivisi da più regioni, come ad esempio i principali bacini idrici.

E che dire della ricerca scientifica? Non soffre già troppo di frammentazione e di un certo grado di nanismo nazionale, per volerla ulteriormente sbriciolare a livello locale?

E che benefici può portare l’autonomia regionale dell’istruzione, se non altre diseguaglianze?

Al di là dei temi specifici, sta di fatto che qualunque progetto serio di autonomia differenziata sarebbe molto difficile per due motivi di fondo, che la nostra politica non ha mai affrontato.

Il primo è economico. Infatti, se si guarda all’andamento storico del rapporto debito/PIL a partire dal dopoguerra, è facile constatare che questo ha cominciato a crescere a dismisura proprio negli anni settanta, in coincidenza con l’attuazione degli Enti Regione, che hanno aumentato e reso più difficile il controllo della spesa pubblica. Inoltre, è ben noto che le regioni più costose per lo Stato sono sempre state quelle a statuto speciale, in cui la spesa pro capite è doppia – e in qualche caso tripla – rispetto alla media nazionale. La nostra storia recente dimostra, dati alla mano, che se è difficile controllare come si dovrebbe i bilanci regionali, è ancor più difficile farlo quando le autonomie sono più marcate, come oggi è per le regioni a statuto speciale e domani sarà per quelle ad autonomia differenziata. Ma nessuna regione è autonoma rispetto al debito, che pesa omogeneamente sul futuro dei nostri figli, fregandosene delle autonomie.

Il secondo motivo è di ordine più strettamente politico. Infatti, il concetto di autonomia differenziata è davvero bislacco: ma perché dovrebbero esserci gradi differenziati di autonomia per le regioni italiane? Non sarebbe più giusto e più semplice che tutte le regioni abbiano uno stesso, ragionevole ed utile grado di autonomia? E che cosa accadrebbe se tutte le regioni chiedessero la stessa autonomia differenziata contemporaneamente, dal momento che ne hanno lo stesso diritto?

Queste domande non hanno risposte logiche e sensate. Forse, però, il progetto di legge nasconde il solito gioco di potere. Temo molto che la molla principale della campagna leghista per queste nuove autonomie sia il desiderio di consolidare la propria base elettorale e di allargare il proprio potere nelle regioni del Nord Italia. Con poco o nessun interesse per l’interesse generale del Paese o, come direbbe la nostra presidentessa del consiglio dei ministri, della Nazione.

A questo punto, giudicate voi se la proposta Calderoli sia più una castroneria o una porcata.

Cesare Pirozzi

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