Noi Italia senza speranza

Enea

Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo: un bel lavoro dell’Istat che offre un quadro d’insieme dei diversi aspetti economici, sociali, demografici e ambientali del nostro Paese, delle differenze regionali che lo caratterizzano e della sua collocazione nel contesto europeo.

La recente pubblicazione presenta una selezione dei più interessanti indicatori statistici, spaziando dall’economia alla cultura, passando dalle condizioni economiche delle famiglie, alla finanza pubblica, all’ambiente. Cosa ne viene fuori? Il risultato più evidente è che l’Italia è un paese vecchio: le nascite diminuiscono e per ogni cento giovani ci sono 157 anziani; i matrimoni sono in calo, due milioni di giovani non hanno un lavoro e nemmeno studiano. Per fortuna ci sono anche elementi positivi, come la maggiore propensione degli italiani a uno stile di vita salutare, con meno fumatori e minor consumo di alcool.

Secondo le prime stime relative al 2015, per la prima volta negli ultimi 10 anni la speranza di vita alla nascita arretra, con un decremento di 0,2 punti per gli uomini (80,1) e 0,3 per le donne (84,7). Nel mezzogiorno i valori della speranza di vita si confermano al di sotto della media nazionale.

Nel 2014 l’Italia si conferma il quarto paese per importanza demografica dopo Germania, Francia e Regno Unito. Oltre un terzo della popolazione italiana è concentrata in tre regioni: Lombardia, Lazio e Campania. Il Mezzogiorno è l’area più popolata del Paese anche se è cresciuta meno nel periodo 2004-2014.

Il dato più allarmante e significativo è quello del numero dei figli per donna, che continua a diminuire: nel 2014 si attestava a 1,37 mentre occorrerebbero circa 2,1 figli per garantire il ricambio generazionale. Se si considera l’età della madre, le regioni del Mezzogiorno si confermano, mediamente, quelle con le madri più giovani.

Del resto ci si sposa sempre di meno (3,2 matrimoni ogni mille abitanti), un po’ di più al Sud, però c’è una bassa incidenza di divorzi, 8,6 ogni 10mila abitanti nel 2014; a livello europeo solo Irlanda e Malta registrano valori inferiori (anno 2013). Per le separazioni si sta verificando una convergenza tra le varie aree del Paese.

Aumentano gli stranieri e di questo ce ne siamo accorti tutti. All’inizio del 2015 risiedono in Italia oltre 5 milioni di cittadini stranieri (1,9% in più rispetto all’anno precedente) che rappresentano l’8,2% del totale dei residenti. Alla stessa data sono regolarmente presenti 3.929.916 cittadini non comunitari (55mila in più rispetto al 2014).

Il flusso in ingresso di cittadini non comunitari verso il nostro Paese risulta però in flessione: nel corso del 2014 i nuovi permessi rilasciati sono stati quasi il 3% in meno rispetto all’anno precedente. La riduzione dei nuovi ingressi ha riguardato soprattutto il Nord-Est del Paese, mentre nel Mezzogiorno si è registrato un deciso aumento (quasi 8mila in più), a seguito soprattutto degli arrivi per mare di persone in cerca di protezione internazionale. Viene smentito uno stereotipo da propaganda politica, non c’è stata l’invasione e l’accoglienza è stata soprattutto delle regioni del Mezzogiorno. Chissà cosa succederà adesso con la chiusura del corridoio dei Balcani e la prossima “recinzione” del Brennero.

Il grado di istruzione degli stranieri è di poco inferiore a quello degli italiani; tra i 15-64enni quasi la metà degli stranieri ha al massimo la licenza media, il 40,1% ha un diploma di scuola superiore e il 10,1% una laurea (tra gli italiani il 15,5%). Importiamo quindi futuri cittadini destinati a lavori con bassa qualifica, un risultato molto diverso dalle ambizioni tedesche di accogliere solo rifugiati siriani laureati.

Calano omicidi volontari e rapine, aumentano i furti, ma il dato più allarmante riguarda il femminicidio: più della metà delle donne vittime di omicidio sono uccise dal partner. C’è qualcosa nella nostra società che sta impazzendo, il rapporto tra uomini e donne sta cambiando e sembra che gli uomini non abbiano ancora

imparato a gestire un rapporto diverso, più maturo e indipendente, il che li porta a cercare nella violenza una soluzione comoda a tante frustrazioni.

Un altro dato negativo riguarda gli oltre 2,3 milioni (il 25,7% del totale) dei giovani tra i 15 e i 29 anni che nel 2015 non sono inseriti in un percorso scolastico e/o formativo e non sono impegnati in un’attività lavorativa. L’incidenza è più elevata tra le donne (27,1%) e nel Mezzogiorno (in Sicilia e Calabria sfiora il 40%). Tuttavia la quota è in calo rispetto all’anno prima: nel 2014 i giovani che non studiano e non lavorano, i cosiddetti NEET, erano il 26,5%. Il primo ribasso dall’inizio della crisi, il primo e speriamo non l’ultimo. Tra chi ha da poco varcato la soglia dei trenta anni risulta laureato uno su quattro. Nel 2015, rileva l’Istat, “il 25,3% dei 30-34enni ha conseguito un titolo di studio universitario, un livello di poco inferiore al 26% stabilito come obiettivo per l’Italia ma lontano dal 40% fissato per la media europea”. Quindi la quota di chi ha un titolo accademico sale, nel 2014 era al 23,9%, ma il target Ue, fissato nella Strategia Europa 2020, è distante. Di certo bisogna fare qualcosa per far studiare di più e poi inserire questi giovani nel mondo del lavoro, altrimenti si rischia di avere quella che Mario Draghi ha definito una “generazione perduta”.

Tutti questi dati contribuiscono a delineare un ritratto poco affascinante della nostra Italia: un paese vecchio, poco istruito, dove troppi giovani non studiano e non lavorano, dove molti uomini uccidono le proprie compagne. Un’ Italia dove c’è poca speranza, quella che spinge a sposarsi e a fare figli. Non è un paese brutto, si vive anche bene, a patto di avere molti soldi, per mangiare sano e curarsi nelle strutture giuste. Per gli altri c’è poca speranza, ecco perché conviene non impegnarsi, non sposarsi e non avere figli, del resto questa è un’Italia che offre poco a chi c’è e a chi vi arriva da lontano.

Allora una domanda sorge spontanea: cosa ci serve per avere più speranza? Non basta l’ottimismo del nostro giovane premier, che da rottamatore del vecchio sistema sembra essere ormai diventato più un fedele esecutore della vecchia classe dirigente, quella stessa mistura di alti burocrati e finti industriali che ci ha portato a questa situazione, che fa finta di mollare la presa mentre gioca con i burattini messi al posto giusto. Non bastano finte riforme costituzionali o vere riforme peggiorative del lavoro, ci vuole qualcosa che sblocchi l’energia e la capacità di fare dei tanti giovani; magari una vera deburocratizzazione e un sistema giudiziario più veloce ed equo possono ridarci qualche segnale di vita, altrimenti l’Italia si avvierà verso un lento, inesorabile declino.

Ancora non abbiamo trovato una strada che ci porti completamente fuori dal tunnel, intravediamo una luce, ma sembra vacua e troppo lontana per permetterci di affermare che questa crisi è finalmente finita.

Consoliamoci con un dato finale, che forse può darci un po’ di speranza e farci pensare che tutto sommato viviamo in un Bel Paese: il tasso di mortalità infantile, importante indicatore del livello di sviluppo e benessere di uno stato moderno, continua a diminuire; nel 2013 in Italia è di 2,9 per mille nati vivi, tra i valori più bassi in Europa. Possiamo dirci fieri di questo e pensare che allora basterebbe continuare su questa strada, perché non serve solo nascere bene, bisogna vivere tutta una vita fatta di opportunità e diritti uguali per tutti. L’Italia del futuro deve avere questa missione in testa per ridare speranza. Ne abbiamo bisogno.

 di Enea Morrone