Portella della Ginestra

Simone Cerulli

La Sicilia del 1946, all’indomani della neonata Repubblica, vive uno strano e travagliato periodo dove crisi economica, politica, scontro tra latifondisti e contadini, mafia e servizi segreti americani giocano ognuno una parte rilevante e da protagonista in quel meccanismo che porterà all’intricata situazione regionale che tutti conosciamo oggi. In questo contesto si inserisce l’eccidio di Portella della Ginestra, prima strage dell’Italia repubblicana, dove 11 persone persero la vita e 27 rimasero ferite durante la celebrazione della festa dei lavoratori del 1° maggio 1947.
A quest’altezza gli americani la fanno ancora da padroni, designano sindaci, anche tra i mafiosi, che proprio in quel territorio erano nati come braccio armato dei padroni terrieri. E siamo nel periodo in cui il presidente Truman fonda la sua dottrina, dando il via alla guerra fredda e spaccando in due il clima di unità post e anti fascista che vigeva in Italia a quel tempo. È il 4 gennaio dello stesso anno, quando De Gasperi vola negli States per incontrare il presidente e incassare fondi in cambio della cacciata dei comunisti dal governo. Ed è l’aprile sempre del ’47 quando, al contrario, in Sicilia la sinistra vince le elezioni regionali. Nei mesi precedenti i contadini avevano ottenuto vittorie significative, entrando in possesso di numerose terre incolte grazie al decreto Segni, cosa che minacciava seriamente l’egemonia e gli interessi dei latifondisti. Così la spaccatura tra separatisti e mafiosi reazionari da un lato, e braccianti più o meno vicini alla sinistra politica e sindacale dall’altro, andava allargandosi e delineandosi sempre più verso un ritorno a forme istituzionali e nazionali di questi ultimi.
I primi invece, perse le speranze monarchico-separatiste (contraddizione in termini che però vide effettivamente la luce in misura preponderante a volte in un senso, a volte nell’altro), si affidarono all’unica arma rapida ed efficace di cui disponevano, tra l’altro oramai da tempo. La reazione, il terrorismo, l’intimidazione plateale.
Il 1° maggio di quell’anno si tornava a festeggiare la festa dei lavoratori, dopo che per tutto il fascismo questa era stata fatta coincidere col natale di Roma, il 21 aprile. Sull’onda di questo clima, e sulla scia di vittime che già si potevano contare tra le fila del sindacato in quei luoghi in quel momento, le Camere del Lavoro di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, organizzarono dunque un grande raduno presso Portella della Ginestra. Non paesi qualsiasi, ma che avevano svolto, specialmente agli occhi degli agrari, un ruolo di primo piano nelle lotte e nelle rivendicazioni di quegli anni nelle conquiste di cui sopra. E che avevano scelto Portella in quanto già da tempo simbolo della storia del movimento socialista siciliano.
Sull’onda dell’entusiasmo e della volontà di dare un segnale forte di resistenza al terrorismo reazionario, l’appello del sindaco e dei sindacati a partecipare fu accolto in massa, cosicché circa duemila persone, lavoratori con famiglia al seguito, si riversarono nella piana. Ignorando però alcuni inquietanti segnali premonitori: voci di attentato, misteriosi inviti a non partecipare all’evento, incontri e vertici tra mafiosi e agrari. Né li allarmò lì per lì l’assenza dei figli dei mafiosi, fino a quel giorno sempre presenti alla festa. Invece ad attenderli, già dalla mattina, c’era Salvatore Giuliano, figura il cui nome ricorre in continuazione ogni qual volta si parli della Sicilia di quegli anni. Legato al movimento separatista, alla mafia, agli agrari, forse ai servizi segreti italiani e americani, fino ad arrivare alla questione P2 e trattativa Stato-mafia. Ebbene questo figuro era lì, appostato con tutta la sua banda, armato di un arsenale che pare avesse sottratto poco prima ad alcuni cacciatori. Qualche membro della banda, tempo dopo, affermerà: Giuliano disse che bisognava fare un’azione contro i comunisti. Bisognava andare a sparare contro di loro, il 1° maggio a Portella della Ginestra. […]dare una lezione ai comunisti perché a suo dire avevano preso troppo campo e il loro partito cominciava a costituire un pericolo”.
E così fu: alle 10:30, dopo che tutti erano arrivati e non appena il primo oratore aveva preso la parola, il commando ha aperto il fuoco sulla folla che, all’inizio, pensava a mortaretti di festa. I colpi di fucile durarono per dieci minuti. Una dodicesima vittima, in realtà, morì nove mesi dopo.
Sappiamo tutti come andò a finire, conosciamo la situazione attuale. E il mondo dei lavoratori, come quello della giustizia, è ancora sotto attacco, seppur con forme meno eclatanti ma non meno subdole. Festeggiare il 1° maggio, non va dimenticato, è fondamentale oggi come se non più di allora.

di Simone Cerulli

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