La pazza gioia

Angelica Basile

“Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza!”. Questa frase di Luigi Pirandello calza a pennello per il nuovo film di Paolo Virzì, in questi giorni nelle sale italiane. E non solo perché La pazza gioia è ambientato in un centro per donne con disturbi mentali, ma anche (e soprattutto) perché le due protagoniste sono portatrici, ognuna in modo diverso, di una visione del mondo dissacrante, imperfetta e quindi verissima. Nonostante la loro malattia mentale e (forse) anche grazie ad essa.
Beatrice e Donatella sono due donne profondamente differenti: la prima, figlia di un’alta borghesia a tratti anacronistica, è ancora strettamente legata ad uno status sociale che tanto le ha dato e molto di più le ha tolto; la seconda, tatuata e ribelle, fragile a tal punto da poterla ferire con uno spillo, si porta dietro un segreto dolorosissimo che la segna per sempre. Sono accomunate da esperienze dolorose, da un passato complesso, un presente burrascoso ed un futuro incerto. Ma, soprattutto, sono accomunate dalla presenza nel centro riabilitativo, entrambe bollate come soggetti pericolosi.
La storia della loro strampalata, buffissima fuga dalla comunità regala uno spaccato di Italia molto anni ’60; un quadro di esistenze segnate, ferite, ammaccate; uno straordinario occhio sul mondo dell’interiorità e un amaro sguardo nei corridoi della malattia mentale, degli ospedali psichiatrici criminali, dei centri terapeutici sparsi per il Paese. Ma, soprattutto, restituisce al pubblico un intermezzo di grande dolcezza, di sensibile consapevolezza e di umanissima compassione, che in greco, non a caso, significa soffrire insieme. Anche a chi non si conosce.

di Angelica Basile

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