Sergio Endrigo

carlo

Per ricordare la malinconia di un uomo che canta, un poeta, un uomo vero.

Avrebbe fatto piacere a Sergio Endrigo sentire Julie, 8 anni, che su Skipe, qualche settimana fa, da Bruxelles, mi ha chiesto: “Sai nonno, conosci questa canzone, mi piace molto” … e si è messa a cantare “Io che amo solo te” …

Moriva 11 anni fa, il 7 settembre, Sergio Endrigo. Non un cantante, “un uomo che canta”, diceva lui. Un poeta, un uomo vero.

Per il quale “il mondo sarebbe cambiato in meglio, proprio per mezzo delle piccole cose, dell’amore, dell’amicizia”..

Che, come ha scritto Giancarlo Governi, ha cantato l’amore, con accenti chiari e sinceri, ma anche le contraddizioni della società, con un occhio alla gente che subisce e che spera in un domani migliore..

Quella gente cui è stato sempre fedele, nella breve stagione dei grandi successi e nei molti anni di oscurantismo riservatigli dall’industria musicale italiana, da critici e discografici asserviti, dai padroni della pubblicità e del mercato.

E’ stato uno dei cantautori dai quali, nella seconda metà degli anni sessanta è partita la rivoluzione della canzone italiana. Come De André,Tenco, Gaber, Guccini, che affrontarono le tematiche della vita reale.

Cantò l’amore, accanto ad essi, Sergio Endrigo. Cantò l’amore, quello vero, con i momenti di tenerezza: “I tuoi vent’anni”; di intensità: “Io che amo solo te”; di stanchezza: “Se le cose stanno così”; di nostalgia: “Era d’estate”; di abbandono: “Lontano dagli occhi, Aria di neve”…

Ma aveva sempre presenti i temi di una società ingiusta: l’emigrazione: “Il treno che viene dal sud, La donna del sud”. Del rifiuto della guerra, con una poesia di José Marti: “La rosa bianca”; della fine delle speranze di un mondo nuovo: “Millenovecentoquarantasette, La ballata dell’ex, Per te Armenia” …

E da lui abbiamo avuto tante, tante altre canzoni, intense, spesso con una vena di melanconia …

E con una particolare tenerezza, ed attenzione, e speranza, insieme a Gianni Rodari, ai piccoli uomini, per un futuro forse migliore: “Girotondo intorno al mondo, L’arca di Noè, Il pappagallo, Ci vuole un fiore, La casa” …

Non è stato un uomo dalla vita facile, Sergio Endrigo.

Aveva sei anni, quando perse il padre e dovette rinunciare all’università. Cominciò a suonare la chitarra e a scrivere canzoni. Nel 1960 le prime (tra cui La brava gente e I tuoi vent’anni) non furono peraltro pubblicate a suo nome, perché i discografici si vollero garantire attribuendole ad autori più noti.

Non è stata l’unica volta che sue musiche vennero attribuite ad altro autore. Nel 1974 e in anni successivi aveva lavorato con il compositore Luis Bacalov, che nel 1994 ricevette il premio Oscar per la musica del film “Il postino”. Musica che, nel 2013,  lo stesso Bacalov ha dovuto riconoscere essere di Endrigo. Che era morto sei anni prima.

Non è stato inoltre molto lungo, il periodo dei grandi successi di pubblico. Un crescendo con 3 LP, dal 1962 al 1968, anno della vincita a Sanremo (Canzone per te). Poi, già nel 1974, la rottura con le grandi case discografiche, con i padroni del mondo della canzone.

Con una situazione paradossale, immagine fedele di un declino culturale.

Da una parte un lavoro di forte spessore, con ispirazioni (José Marti) o contatti di alta cultura (Ungaretti, Pasolini, Vinicius de Moraes) e di frequentazioni musicali di alto livello (Battiato, Bacalov, Toquinho), sempre nella consapevolezza del valore artistico delle proprie composizioni.

Dall’altra, il rifiuto e l’ostracismo, in Italia, del mondo delle TV e della pubblicità, che lo costrinse a lunghi soggiorni in America Latina.

Un mondo, quello della musica popolare, che Endrigo ha bene descritto nel suo libro: “Quanto mi dai se mi sparo”, del 1995. In esso c’è la malinconia e lo squallore di chi è costretto ai margini delle sale luccicanti del successo, e la provocazione di un progetto di suicidio programmato ed annunciato dal vivo per portare alle stelle le vendite dei propri LP …

Il suo lavoro, la sua ispirazione hanno certamente il respiro del mondo della sua adolescenza in Istria, a Pola. Una città austriaca, fino al 1918. Poi italiana, fino al 1943. Poi con occupazione tedesca, fino al 1945. Poi per 45 giorni con una cruenta occupazione jugoslava, cui fece seguito l’occupazione degli alleati, fino al 1947. L’anno in cui avvenne il terribile esodo in cui 38.000 mila dei 41.000 abitanti emigrarono in Italia (c’è la canzone di Endrigo: “Millenovecentoquarantasette”). Poi jugoslava, fino al 1991. Ed ora croata.

La sua musica, la sua poesia, la sua ispirazione non potevano che riflettere questa su connotazione mitteleuropea. Anzi, di più, molto di più.

Lo ha detto lui stesso, in un’intervista: “Non so da dove venisse l’ispirazione delle mie canzoni .. io credo che affondassero nella mia malinconia austro-ungarica, che ha qualcosa in comune con la saudade brasiliana: la consapevolezza di una perdita dentro l’intensità di un’emozione.

Grazie, Sergio, per quello che hai fatto,  che hai scritto. Che ci hai lasciato.

Che vivi insieme a noi. Perché ci sarà sempre una bambina che dirà: “Mi piace molto”, di una delle tue canzoni.

di Carlo Faloci

 

 

 

 

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