Café Society: quando la vecchia Hollywood non basta

giusy

La cara vecchia Hollywood degli anni Trenta, le dive del cinema, i night, le feste sfarzose, il jazz. Un protagonista tra l’inetto e il “naif” – per definizione di uno dei personaggi – un triangolo amoroso, un ricco self-made man che nello sfarzo e nella mondanità ci nuota ad ampie bracciate. No, non si sta raccontando dopo qualche anno la storia del grande Gatsby. Sono le linee principali di Café Society, l’ultimo film di Woody Allen presentato come fuori concorso in apertura al Festival di Cannes e uscito in Italia il 29 settembre.
Commedia della nostalgia e dell’amore mancato, Café Society racconta la storia di Bobby Dorfman che lascia New York e la famiglia ebrea per andare a vivere in California sperando nel sostegno dello zio Phil, agente cinematografico che affida il nipote alla sua segretaria (e amante), Vonnie, affinché lei gli faccia conoscere la città. Presto detto: lui si innamora della ragazza, che lo sceglie in un primo momento per poi tornare dal ricco Phil appena questi si persuade a lasciare la moglie. Il resto del film è un vortice di cambiamenti tra città, relazioni e successi di Bobby che si sposa e si ritrova, a fine film, a tornare con la mente al vecchio amore.
La storia che ci racconta Allen è quella di un romantico eroe e della sua ascesa al successo inversamente proporzionale alla sua infelicità: veloce e leggero, il film potrebbe sulla carta reggere benissimo grazie soltanto all’ambientazione vintage. Eppure, proprio perché di rievocazione in costume si tratta, qualcosa a Caffè Society manca, in una Hollywood che non è abbastanza, con delle feste mai troppo folli, gli abiti non abbastanza scintillanti: anche se distante anni e chilometri, Phil Stern sembra il vicino di casa di Jay Gatsby, ma, a confronto, con poca forma e ancor meno sostanza. L’impressione di ritrovarsi in un frettoloso fac-simile del film di Luhrmann è forte, se ad una fotografia accettabile si affiancano ambienti poco perfetti e personaggi inquieti ma distrattamente approfonditi (una Kristen Stewart nel ruolo della protagonista di cui si fatica a distinguere le espressioni: peccato per Blake Lively, che invece continua a crescere in modo promettente) che cercano di andare avanti tra vecchi amori mai dimenticati ed eterni stereotipi, dai gangster agli ebrei.
Al quarantottesimo film di Woody Allen qualche battuta indovinata e alcuni spunti interessanti (ancora) stavolta non sono bastati: legittimo sorprendere poco quando si presenta un film all’anno, difficile stupire molto con tanti piccoli capolavori alle spalle, di cui il più recente risale però al 2011 (Midnight in Paris). Ironia, intelligenza e critica della società sono ciò a cui Allen ci ha abituati: dispiacerebbe a qualcuno un’attesa più lunga per il prossimo film?

di Giusy Patera

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