Purezza di sangue

baroncini

Il mare rovescia a ogni onda sulle nostre coste migliaia di uomini, donne, bambini: li chiamiamo profughi, clandestini, migranti. Dovremmo chiamarli persone, perché le parole hanno un peso, o anche solo per onestà intellettuale: persone che hanno fame mattino mezzogiorno e sera, che piangono per la paura, che soffrono per i torti e per le malattie, che di notte hanno sonno e sogni, che si raccontano storie nella lingua che hanno imparato in casa propria. E si innamorano, come noi. Fanno figli. Esattamente come noi, tutti i giorni provano a non morire. Qualcuno ci riesce, qualcuno purtroppo no. Oggi, mentre scrivo, le persone morte in mare cadute da un barcone sono 17 e tra loro c’è un bambino.

Negli ultimi due secoli la migrazione ha popolato il Canada, l’Australia, gli Stati Uniti d’America. Rapportati alla storia dell’uomo, due secoli sono un tempo di pochi secondi; per millenni la migrazione non è mai stata messa in discussione. I movimenti di popoli interi appartengono all’uomo come il sole all’estate e la pioggia alla primavera. Insistere sull’idea che siano un errore della storia, uno sbaglio da rimediare, non serve a nessuno. La cronaca tuttavia registra sacche di resistenza su tutto il territorio italiano: battaglie lessicali e culturali che tentano di ignorare il corso degli eventi, o di inchiodarlo al muro, episodi di intolleranza che servono a segnare una distanza, gesti di razzismo che rivendicano una purezza di sangue. Che è un gran malinteso, la purezza di sangue, per chi come noi è nato in un paese mediterraneo e ha nelle vene sangue misto ottomano, greco, lanzichenecco, arabo, africano, ebreo, normanno.

A Cagliari una scuola elementare gestita da suore ha dato asilo in questi giorni a due bambini arrivati dal mare in Sardegna senza genitori: due minori non accompagnati, un etiope di 12 anni e un egiziano di 9. E subito i familiari degli alunni sardi hanno protestato, minacciato di togliere i propri figli dalla scuola, chiesto che i bambini stranieri utilizzassero un bagno “diverso”.

Chi ha vissuto l’esplosione del comprensorio ceramico, il boom della piastrella, che ha richiamato in Emilia mezzo meridione senza lavoro, si ricorda la migrazione interna, da Sud a Nord. L’arrivo di gente dal Sud ha comportato in un breve giro di giostra l’ampliamento degli ospedali, l’urbanizzazione di nuovi quartieri, il raddoppio delle scuole. Fogne, illuminazione pubblica, autobus, reparti ospedalieri. Non è stato semplice. E se il Privato si è potuto permettere in pochi anni di diventare ricco è anche perché il Pubblico ha pagato i servizi, l’assistenza e l’istruzione agli operai.
Durante il boom del comprensorio ceramico, i figli degli immigrati venivano a scuola con me. Non tutti avevano il viso le mani pulite, la miseria spuntava sotto l’orlo del grembiule. Parlavano i loro dialetti: lingue strette come abbracci, che noi non capivamo. E ogni mattina, in ogni classe, da ogni insegnante, suonava la stessa raccomandazione, come un mantra: “siete tutti uguali”.
Ma quando dalla Sardegna era arrivata Francesca, il teorema dell’uguaglianza era diventato più difficile da dimostrare: perché Francesca era evidentemente “diversa” da noi. Una bambina coi i colori del sole, così lontani dai nostri, alunni sbiaditi negli occhi e nei capelli dalle nebbie padane. Francesca era l’icona della Sardegna: scura, minuta, piccola, quasi la metà di noi, gli occhi di carbone, con un velo di peluria nera sul labbro, un cognome che finiva per U che la condannava alla differenza ad ogni appello. Francesca non diceva, silenziosa, non parlava: veniva da lontano, aveva attraversato il mare, il viaggio le aveva tolto la voglia di raccontare. Ma se ridevi, rideva anche lei. Se correvi, correva anche lei. Se uscivi dalla classe per andare in bagno, veniva con te. Non le era stato riservato un bagno alternativo, da straniera. Niente “purezza di sangue”.
Il mare rovescia a ogni onda sulle nostre coste un pescato di migliaia di bambini, non accompagnati, minori stranieri che vanno considerati come bambini, secondo la convenzione ONU dei diritti del fanciullo. Cresceranno nei nostri quartieri e diventeranno cittadini come noi, rimarrà nella loro memoria il modo in cui sono stati accolti. Se trattati bene, saranno buoni cittadini.

Non si accoglie per bontà. Si accoglie per costruzione, per cultura, per educazione, per la somma di innumerevoli dichiarazioni di uguaglianza. L’accoglienza si insegna a scuola, come si insegnano le tabelline: o si impara da piccoli, o non si impara più.

di Daniela Baroncini