La globalizzazione e il ritorno al passato

Pierfrancesco Zinilli

La notizia è questa: il 14 ottobre il parlamento della Vallonia, una delle tre regioni del Belgio, ha votato per bloccare il CETA, l’accordo di libero scambio tra UE e Canada. Una regione di circa 3,5 milioni di abitanti ha bloccato un trattato riguardante 500 milioni di persone. Il 27 ottobre, però, anche se manca ancora l’ufficialità, sembra che si sia trovato un compromesso e il CETA sarà approvato. La notizia è passata in sordina in Italia, e non avrebbe granché di interessante in sé. Nonostante il Canada sia un partner commerciale migliore degli USA, i tanti allevatori valloni fortemente sussidiati temono una concorrenza a ribasso. Eppure, in questa storia c’è poco di specifico e tanto di generale: un comune sentire anti-establishment che va dagli Indignados a Trump, da Occupy Wall Street al rifiuto del TTIP da parte dell’opinione pubblica di Germania, Austria, Finlandia. Negli Stati Uniti, entrambi i candidati, seppure in maniera diversa, si sono schierati contro i trattati internazionali e hanno criticato il NAFTA, l’accordo di libero scambio dei paesi del Nord America. Trump promette di chiudere le frontiere e la stessa cosa succede in Europa, basta guardare il caso di Goro. Negli ultimi anni l’agenda e le tematiche le ha dettate la destra. La sinistra ha perso la sua identità e ha accettato troppo facilmente l’ideologia dell’austerità e del mercato. La destra populista ha così riempito quel vuoto e ha spinto su un emozione primaria, presente in ognuno di noi: la paura. Gli sconfitti della globalizzazione, che sono per la maggior parte i lavoratori poco qualificati, si sono visti ridurre gli stipendi, e non di rado la scelta è stata tra minori diritti o la disoccupazione. Così al centro della rabbia generale finiscono gli obiettivi sbagliati, cioè i migranti e il libero scambio. Eppure, sin dall’antichità l’apertura al commercio è storicamente fonte di prosperità e di fioritura culturale. Dalle repubbliche italiane nel medioevo alla Corea della seconda metà del novecento. Le migrazioni, invece,  sono da sempre il modo più efficiente a livello globale per migliorare il proprio tenore di vita. Ma, come l’evidenza e la dottrina economica mostrano, i migranti arrecano vantaggi anche all’economia del paese ospitante. Al contrario le politiche protezionistiche danneggiano tutte le classi sociali. La storia non si ripete mai uguale eppure può insegnarci qualcosa. Un altro periodo di grande integrazione economica, il primo che coinvolgeva quasi tutte le grandi potenze, terminò nel 1914. A quella data sono susseguiti anni di politiche protezionistiche e tendenze autarchiche. Quelle politiche hanno portato solo miseria e hanno fatto da apripista alle ideologie nazionaliste. Oggi è impossibile tornare ad un passato fatto di nazioni auto-sufficienti e isolate. Anche il governo britannico lo sa bene, infatti neanche i sostenitori del Leave vorrebbe mettere in discussione la permanenza nel mercato unico. La globalizzazione va governata. Questa può funzionare solo se si compensano i più poveri. Si dovrebbe discutere di reddito minimo, di sistema fiscale equo, di servizi a sostegno degli ultimi. Invece negli ultimi 30 anni si arrivati ad un iper-globalizzazione senza istituzioni a governarla che ha già messo a repentaglio la prosperità economica con la crisi del 2008. Ha creato società più disuguali, dove i ricchi possono influenzare l’attività legislativa molto più di quanto possano fare i normali cittadini. È normale allora che si sia venuto a creare un clima di sfiducia e indifferenza nella politica e dove qualsiasi cosa venga dall’alto viene vista come un tranello. Risulta perfetto per capire la situazione il cosiddetto trilemma di Rodrik, professore ad Harvard. Secondo questa teoria è possibile ottenere contemporaneamente solo due tra integrazione economica, sovranità nazionale e democrazia. Se la prima è così vantaggiosa e se nessuno vuole rinunciare alla terza, allora forse ciò di cui si dovrebbe fare a meno è la sovranità nazionale. É necessario conformare davvero le legislazioni a livello europeo e architettare meccanismi di democrazia reale che vadano oltre gli stati nazionali.

di PierFrancesco Zinilli

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