Lo sbaglio delle politiche di respingimento

“Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!” scriveva Rousseau nel suo “Discorso sulle origini della disuguaglianza fra gli uomini” del 1755. Prima che l’800 gettasse, assieme col suo Romanticismo, il fumo del nazionalismo patriottico negli occhi del secolo dei Lumi, spianando poi la strada alle xenofobie novecentesche.

Eppure sempre più pali cerchiamo di innalzare, fossi più profondi cerchiamo di scavare noi figli dell’era moderna. Che siano concreti e visibili come quelli alle frontiere di Paesi come gli Stati Uniti, oppure impalpabili come quelli che circondano il nostro Mar Mediterraneo, muro di cinta della Fortezza Europa.

E l’Italia, culla del diritto, non poteva farsi sfuggire l’occasione per distinguersi. Negativamente. Perché la politica del respingimento è una barbarie perpetrata ai danni non solo di leggi scritte e norme europee, ma anche e soprattutto ai danni del sentimento di umanità. Non solo si nega la possibilità a chi proviene da Paesi dilaniati dalle guerre e dai soprusi di richiedere asilo; si nega altresì la possibilità a un cittadino del Mondo di raggiungere condizioni di vita migliori. Si cerca di arginare, quasi di negare un fenomeno che è antico quanto il mondo, che ha sempre riguardato tutti i “Paesi”. Un “flusso” che, semplicemente, ha caratteristiche e conformazioni mutevoli e che richiede accorgimenti altrettanto mutevoli. Un flusso che, tra l’altro, oggi parte da Paesi che hanno un conto ancora aperto con quelli in cui approdano. Siamo responsabili e ce ne laviamo le mani. Schiavismo, colonialismo, globalizzazione. E lo stesso diritto di benessere ed uguaglianza che neghiamo a noi stessi in “casa nostra” lo neghiamo a loro. Spinti da chi alimenta paure e ci mette gli uni contro gli altri in una “lotta” tra poveri. Perché paura e ignoranza sono facili da instillare, e chi le possiede è facile da manovrare.

Eppure, ancora, parlando in termini più pratici, se ci fosse bisogno di ricordarlo, questi flussi osmotici portano nuovo ossigeno, risollevano la nostra economia stagnante, tengono a galla il welfare. Il “prezzo” dell’integrazione è minore dell’introito che porta. Il bilancio è, in questo caso a differenza che in altri, nettamente in positivo.

Respingere è uccidere, diciamolo chiaramente. E rinchiudere i sopravvissuti nei CIE o simili è un sopruso. E lo sa bene chi questo sistema lo conosce da vicino, chi è costretto a fare da macellaio secondo dettami venuti dall’alto, da chi non vede e non sente. Da chi non si troverà a dover lasciare annegare uomini donne e bambini in mare per paura di essere preso per scafista, di aver problemi con la legge, di perdere tutto. Da chi non vive ad esempio a Lampedusa dove l’emergenza è viva.

E che non si continui a raccontare la favola del “prima gli italiani” perché non ce n’è per noi, figuriamoci per loro. Perché al di là del fatto che volendo ce ne sarebbe per tutti, non è un ragionamento umano. E che non si continui a raccontare di fiumi enormi di persone quando, come ci ha già qui ricordato Luca De Risi, quella dei profughi è la componente più esigua degli stranieri che arrivano nel nostro Paese.

Accogliere ed integrare è, oltre che possibile, doveroso.

di Simone Cerulli

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