Nuovi migranti

C’è un momento, un’età, in cui tutto sembra quasi dovuto. Certo per molti, non dico per tutti; ma c’è un momento in cui il futuro appare tanto distante da lasciarti pensare che arriverà da sé, che non serva rimuginarci troppo su. Elementari, medie, poi magari lasci che la famiglia scelga per te in quale scuola superiore andare. A tredici anni dovresti prendere una decisione così determinante, che segnerà dannatamente la tua vita per sempre. Poi ripensamenti, crisi, abbandoni. Molti però seguono il cammino, passivamente, con quel sentimento di automatismo che dicevo prima. Non che non ci sia qualcuno con le idee già ben chiare, per carità. Ma quale idea concreta del futuro, di massima, si può avere in quel periodo? Si delinea in quegli anni, mentre già in realtà una strada ben precisa s’è intrapresa, una qualche idea, un progetto, un’ambizione. Farò questo, sarò quello. E intanto si continua col cuor leggero di quell’età, della distanza delle vere responsabilità, del de sideribus che è desiderio perché lontano. Non mi si voglia male, non parlo di tutti indistintamente; non si vuol fare qui un calderone senza giudizio, dimenticando quelle realtà in cui l’innocenza, l’inconsapevolezza e l’autonomia di scelta è un puro miraggio. Parlo invece, qui, di una ben determinata seppur poco definita area, di una porzione della mia generazione abbastanza ‘fortunata’ da non aver avuto bisogno di guadagnarsi il pane sin dall’infanzia, ma non abbastanza ‘fortunata’ da avere la strada ben spianata. Una fluttuante classe media, con le sue medietà economiche, culturali, territoriali. Chiusa questa parentesi, dicevo di come nell’età della scuola dell’obbligo e nel periodo delle scuole superiori, si proceda un po’ per inerzia, si finisce perché si deve finire, poi ci si guarda intorno veramente per la prima volta. Ma si sa, qualcuno diceva che “a vent’anni è tutto ancora intero, perché a vent’anni è tutto ‘chi lo sa…’”.

E quindi molti si avvicinano al mondo dell’università, altri al mondo del lavoro, però ancora con la stessa fiducia nel futuro, con l’idea che la strada possa poi aprirsi da sé, col tempo. E pian piano i veri sogni, i progetti, cominciano a delinearsi; in due o tre anni al massimo un’idea meno vaga di quello che vorresti diventare si fa strada, e cominci a chiederti se hai le basi sufficienti alle spalle, se hai possibilità concrete all’orizzonte. E qui son problemi: poi tanto intero, quel tutto, non è più. Sempre per alcuni, intendiamoci, come sopra. Ma qui si apre la mia riflessione sul futuro, sull’Italia,  su quelli della mia età e via più in basso. Eravamo, noi amici, un piccolo gruppo. Una decina di persone, poco più. Stesso liceo, stessa classe; altri aggiuntisi col tempo. Per opera di selezione poi qualcuno è andato, si è allontanato, simile rimane con simile, una scrematura naturale.  Ebbene ora rimaniamo in pochi: forse non rimarrà più nessuno. Perché pezzo per pezzo ci stiamo disgregando, disperdendo. In giro per l’Europa, per il Mondo. Ci siamo guardati intorno e abbiamo trovato il vuoto. Proprio quando finalmente avevamo capito cosa volessimo fare nella vita, quando tutti si aspettavano da noi che prendessimo una scelta e imboccassimo una strada, quella ci è apparsa chiusa. E allora abbiamo guardato oltre, in cerca di speranza. Siamo stati illusi da sempre, col miraggio del benessere, della crescita, dell’homo faber fortunae suae. Siamo cresciuti con padri e madri che avevano conosciuto un periodo di relativa ricchezza, figli loro stessi di persone che dalla fame avevano tratto oro, che dal sacrificio avevano creato una solida base, che gli avevano garantito un futuro. Poi loro hanno eroso a mano a mano questo patrimonio, hanno vissuto e hanno fatto vivere noi loro figli con soldi che non avevano guadagnato, in case che non avrebbero comprato se non con grandi aiuti. Quelli dei loro padri. E proprio quando noi, giunti al momento, credevamo fosse il nostro turno, abbiamo capito due cose: che non avrebbero potuto darci lo stesso aiuto che era stato dato loro, e che qui, nel vecchio mondo occidentale, soprattutto in Italia, non avremmo trovato la strada che ci avevano insegnato a voler perseguire.

E allora adesso noi siamo i nuovi migranti, nuovi un po’ per l’Italia,  nuovi un po’ per la società. Non migranti per estremo bisogno o per disperazione. Non più solo vecchi migranti borghesi che formano le loro menti nei ricchi salotti delle capitali, non più solo esploratori avidi di nuovi costumi e nuove frontiere. E neanche in cerca di esperienza da sfruttare in futuro a casa nostra, ma schiera di affamati di sogni, di speranze nutrite e assecondate in famiglia, a scuola, in televisione. E non sappiamo se torneremo. E se torneremo non sappiamo qui cosa saremo. Assetati di quel posto nella società che ci siamo guadagnati con i nostri sforzi e con i nostri studi. Un posto che qui probabilmente non troveremo più. In cerca di un vero obiettivo, di che cosa siamo, di che cosa vorremmo essere. Attratti dal sogno della smisurata crescita economica, del costante sviluppo, del trovarci un posto a spallate. Pensiamo all’arrivo, senza dare attenzione al percorso. Siamo attratti inevitabilmente verso quei luoghi che ancora resistono, che ancora dànno segni di vita. O dai quei luoghi che il sogno cominciano ora ad assaporarlo, sulle spalle di noi paesi che lo abbiamo vissuto a spese loro. Ma anche questa è un’illusione, il gioco non durerà all’infinito. Si cresce alle spalle di qualcuno, e ben presto non ci sarà più nessuno da sfruttare. E nel frattempo però siamo noi quei nuovi migranti, siamo noi che ci sgretoliamo e abbandoniamo questo Paese sgretolandolo, togliendogli linfa vitale; e nessuno ci trattiene veramente, con convinzione, ci prega di rimanere. Siamo un’emorragia. Eravamo, noi amici, un piccolo gruppo. Non ne rimangono più molti, di noi nuovi migranti, e altri già sono in partenza. E chi rimane si tormenta per partire.

di Simone Cerulli

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