Gerardo D’Arminio, una vita dedicata alla lotta alla criminalità.

Una medaglia d’argento al valore e un busto in una piazza di Afragola; questo è quanto rimane del maresciallo capo Gerardo D’Arminio. Trentotto anni, una decina di encomi e due promozioni “sul campo” per meriti eccezionali, Gerardo era un uomo impegnato in prima linea: fu tra coloro i quali parteciparono attivamente all’arresto di un importante boss palermitano, Michele Cavataio, calandosi nella botola che conduceva al nascondiglio segreto del boss. Indiscusse capacità investigative e un formidabile intuito consentirono a Gerardo una rapida ascesa all’interno dell’arma.

Quattro anni di attività a Palermo, poi, nel 1970, il trasferimento come comandante della stazione del quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio, dove Gerardo ebbe la possibilità di mettere a frutto le competenze acquisite in anni di indagini sulla mafia. In quegli anni si stava generando una violenta contesa tra il clan di Cosa Nostra e il gruppo dei marsigliesi per il controllo della via del tabacco, che Gerardo intuì subito celasse in realtà al suo interno la lotta per il traffico di stupefacenti. Fu alcuni anni dopo, al comando del nucleo antidroga di Napoli, che Gerardo scoprì un massiccio movimento di eroina che, dal Perù, passando per Francoforte e Milano, approdava in Italia. Ma i suoi enormi successi non passarono inosservati. Parallelamente alla sua brillante carriera, Gerardo coronò il sogno di sposare Anna, da cui ebbe quattro figli. Nonostante il lavoro lo assorbisse completamente, Gerardo faceva di tutto per essere un buon padre.

Quella terribile sera del 5 gennaio 1976 Gerardo era con Carmine, il figlio più piccolo, che all’epoca aveva quattro anni. Rientrato tardi dal lavoro, verso le 21:00 era sceso in Piazza Gianturco, ad Afragola, il paese dove era andato a vivere con la famiglia, e dove i negozi erano ancora in pieno fermento per l’arrivo imminente della befana, che all’epoca era l’incaricata della consegna dei doni ai bambini. Gerardo voleva acquistare una bicicletta per Carmine. E proprio mentre il papà mostrava la bicicletta al figlioletto, si consuma la tragedia: otto colpi di fucile sparati da una Cinquecento gialla con a bordo tre esponenti del clan Moccia raggiungono Carmine tra il collo e la spalla, davanti agli occhi increduli del piccolo. Inutile la corsa all’ospedale, dove Gerardo giunse cadavere. Dell’omicidio si auto denunciò l’ultimo dei fratelli Moccia, Vincenzo, minorenne all’epoca dei fatti, il quale, condannato a diciassette anni di galera, dopo averne scontati appena undici fu rilasciato, e trucidato poco dopo nell’ambito di una guerra di camorra. Il messaggio del clan fu chiaro: nessuno, neanche un esponente delle forze dell’ordine, un Carabiniere, può ficcare il naso nei loschi affari della malavita. Una medaglia d’argento al valore, e un mezzo busto in una piazza di Afragola, a ricordo di un uomo che ha fatto della lotta alla criminalità lo scopo principale della propria esistenza.

di Leandra Gallinella

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