Il sacrificio di Fortunato Arena e Claudio Pezzuto

La sera del 12 febbraio del 1992 Fortunato Arena e Claudio Pezzuto hanno finito i loro controlli a Pontecagnano, in provincia di Salerno, e stanno rientrando in caserma. Quando passano per Piazza Garibaldi c’è qualcosa che attira la loro attenzione. Sono le otto di sera, tra i negozi che chiudono e la gente che rientra a casa notano una grande jeep bianca, un Nissan Patron targato Firenze. A bordo ci sono due persone, forse tre.
I carabinieri si fermano, Pezzuto scende e chiede i documenti al conducente. È titubante, estrae la patente controvoglia. Il carabiniere torna alla Fiat Uno e chiama via radio la stazione per controllare i dati.
Dall’altra parte della ricetrasmittente, alla centrale operativa di Battipaglia, seguiranno la tragedia in diretta. Perché dalla jeep scendono in due e aprono il fuoco contro Pezzuto. Viene ferito al braccio, prova a far scudo verso i passanti prima di essere ferito a morte. Poi i killer si rivolgono verso Arena, una prima sventagliata di mitra, il carabiniere risponde al fuoco provando a mettersi in salvo sotto il porticato di un negozio. Lo raggiungono e lo finiscono.
La jeep prende il via, la ritroveranno nella campagna a pochi chilometri da Pontecagnano. Lì vicino scovano anche Massimo Cavallaro, proprietario della macchina preso in ostaggio. Lo interrogano senza sosta e inizia a delinearsi il percorso dei killer, latitanti, che fuggivano dalle forze dell’ordine e dagli scagnozzi della Nuova Famiglia.
I due assassini scompariranno per 152 giorni, cambiando nascondiglio quasi giornalmente. Ed è qui che si inserisce uno dei tanti fatti inquietanti di questa vicenda. Ogni volta che i carabinieri li individuano, loro riescono a fuggire. Forse sono avvertiti, c’è un agente che li avvisa in anticipo, un informatore in divisa. Ma oltre alle forze dell’ordine li stanno cercando anche i clan rivali. Un po’ per vendetta, un po’ per allentare la pressione nelle loro zone di affari. È una fuga senza sosta ma anche senza speranza, che finisce a Calvanico, in uno dei tanti appartamenti affittati a studenti universitari o a turisti per il fine settimana.
Sono Carmine De Feo, 30 anni, e Carmine D’Alessio, 27, quest’ultimo morto nel 2008 per gravi problemi di salute, condannati entrambi all’ergastolo.
Quello che rimane in una tragedia simile, oltre alle medaglie e alle targhe, è come sempre il dolore di chi resta. Fortunato Arena aveva 23 anni, veniva da Messina, si era sposato da sette mesi e la moglie, Angela Lampasone, era incinta ma per il grande dolore perse il bambino: “Nessuno mi ridarà più mio marito e mio figlio”. Claudio Pezzuto invece, 29 anni, originario di Lecce, un figlio già ce l’aveva. Si chiama Alessio, appena 2 anni quel 12 febbraio. E ora insieme alla madre, Tania Pisani, ha dedicato la vita alla legalità, all’onestà civile, al ricordo di suo padre e di quanti hanno perso la vita facendo il loro dovere.

di Lamberto Rinaldi