La fame nel mondo. Una pestilenza silenziosa.

795 milioni di persone. Questo è il numero di coloro i quali, nel mondo, vivono una situazione di denutrizione cronica. Una persona su nove, a fronte delle quattro su dieci che invece sono in sovrappeso, uno su dieci addirittura obeso. Quasi un miliardo di persone che si ammalano, e muoiono, perché soffrono di malnutrizione, e un altro miliardo che ogni anno si ammala e ha bisogno di cure perché mangia troppo. È calcolato che, all’incirca, ogni persona debba assumere mediamente 2100 calorie al giorno, limite minimo necessario alla conduzione di una vita sana. Sotto questo ammontare, l’organismo rallenta le proprie funzioni fisiche e mentali. Il corpo e il sistema nervoso smettono di svilupparsi, il sistema immunitario ne è compromesso. Ebbene, di questi ottocento milioni di malnutriti, la maggior parte non riesce ad assumerne 2100 neanche in una settimana, mentre chi appartiene alla cosiddetta categoria dei paesi sviluppati, ne assume circa 7000 al giorno. Ma la fame, più che la quantità assoluta di cibo assunta, riguarda soprattutto il numero e la qualità degli elementi nutritivi, proteine, vitamine e minerali, necessari al corretto funzionamento e sviluppo dell’organismo.
Porre l’accento sulle differenze tra le varie aree, tra nord e sud del mondo, occidente ed oriente, paesi sotto sviluppati e in via di sviluppo contro paesi sviluppati e industrializzati, significa prendere atto di una situazione paradossale ed evidente, ma non significa individuarne le cause. Non c’è nessun collegamento che sia direttamente causale, nessuna predazione pianificata ed evidente da parte di una realtà ai danni dell’altra. La situazione è molto più complicata di così. Entrano in gioco meccanismi stratificati ed intricati che si sono sviluppati nel tempo, scelte ed avvenimenti che si affiancano a pure contingenze, come la posizione geografica, il clima e i suoi cambiamenti, scelte culturali che precludono l’accesso a determinati beni a talune o talaltre fasce della società. Il fatto che nella nostra parte di mondo si produca più del dovuto e conseguentemente si consumi troppo, non rappresenta la causa della malnutrizione del resto del pianeta. Ma ne rappresenta la potenziale soluzione. Lo spreco di cibo annuo nei paesi più sviluppati corrisponde all’intera produzione alimentare dell’Africa subsahariana, e nella sola Europa lo spreco corrisponde a circa 180 chili di alimenti pro capite. Questo dimostra che non c’è bisogno di aumentare la produzione, di estendere i mezzi e le tecnologie di coltura e allevamenti intensivi ai paesi meno sviluppati, e questo per due motivi. Primo, non possiamo permettercelo. La terra, l’ambiente, non può permettersi di reggere il carico cui è sottoposto ora, figuriamoci se questo si espandesse su scala totale. Secondo, perché non risolverebbe il problema. E questo è dimostrato dal fatto che il mondo occidentale e sviluppato non ha affatto risolto il problema. Seppure i numeri assoluti e relativi siano irrisori qui rispetto che altrove, la fame e la malnutrizione, che tra l’altro non coincidono, sono ben lungi dall’essere state sconfitte. Qui dove il 30 percento della produzione va sprecato, 15 milioni di persone vivono al di sotto degli standard di una sana alimentazione, in condizioni di deprivazione e sottosviluppo. Ma anche, come già detto, ben il 40 percento va incontro a condizioni di cattiva alimentazione, che però assume le forme di sovrappeso, in un caso su dieci di obesità, quindi di malattie cardiovascolari, tumori, speranza di vita incredibilmente compromessa. Questo sistema dove la logica di mercato ha scalzato ogni altro sistema valoriale e programmatico, è tutto fuorché auspicabilmente diffondibile.
C’è bisogno, nell’immediato, di smantellare fittizia idea di natura per cui homo faber fortunae suae, che giustifica questa ripugnante disparità nelle condizioni di vita umane, e redistribuire su scala planetaria la produzione che in una sola parte di mondo è già sufficiente per tutti. Ne guadagneremmo tutti, a redistribuire, avendo dimostrato che il troppo è altrettanto dannoso del troppo poco. E poi, in un secondo momento, ci sarà bisogno di ripensare radicalmente alle quantità e ai modi di questa produzione, che non è più sostenibile e già irreversibilmente compromessa.

di Simone Cerulli