Il Boss e la Morte.

Il rapporto del capo dei capi, Totò Riina, con la morte, possiamo immaginare, ptrebbe probabilmente risalire alla sua prima uccisione. Normalmente il primo incontro con la Signora più potente del pianeta avviene per la dipartita di qualche anziano familiare (chissà se da piccino anche per lui è stato così) quando si è piccoli e nemmeno si capisce bene cosa stia avvenendo. Nel caso di Riina, invece, la presenza della Morte si manifesta in un modo più incisivo, quasi intimo, a causa della costanza nella sua vita.
Nel corso della sua carriera di boss, per il mantenimento del potere e influenza raggiunti, ha infatti dovuto uccidere o far uccidere un numero imprecisato di persone. Il suo nome risulta presente in attentati, stragi, sparizioni. Il boss stragista per scelta e definizione. Lui e la Morte. La Morte che diventa quasi un’ombra, onnipresente, nelle sue scelte.
Eppure, nonostante questo rapporto di complicità con l’eterna Signora, gli anni per lui sono passati, compresi gli ultimi venticinque trascorsi in galera, portandolo a raggiungere gli 84 anni. Lui il boss, fino a qualche mese fa, alla ribalta sui giornali per la sua (non vera) volontà di parlare, di rivelare, poi svanita nel nulla, nell’arco di pochi giorni. In un modo incomprensibile per molti. In realtà un modo che potrebbe essere una scelta di comunicazione. “Se non mi aiutate o non mantenete le promesse, prima di morire parlo”… potrebbe suonare anche in questo modo la sua scelta.
Il boss sta male. E’ malato. E’ all’ergastolo, curato e mai trascurato, con ricoveri ospedalieri.
Il boss adesso è raccontato in un certificato medico che ne descrive le patologie e lo racconta anche una richiesta dei suoi avvocati che ne domanda la detenzione domiciliare per concedergli una morte dignitosa. Solo che raramente la morte è dignitosa. Solo che lui è un boss che riscuote ancora il rispetto e il timore dei suoi uomini e dei suoi avversari. Minaccioso fino a poco tempo fa in modo espresso.
La I sezione della Corte di Cassazione vuole che si motivi in modo chiaro quali sono le ragioni per le quali il boss non deve andare ai domiciliari. Un ergastolano responsabile di centinaia di uccisioni. Un uomo che non si è mai pentito.
Se è vero che la Corte di Cassazione ha fatto il suo dovere, a rigore di normativa, nel chiedere che si motivi il diniego, è pur vero che ci si trova di fronte ad un uomo curato, con medici a disposizione, non abbandonato a se stesso e innegabilmente responsabile di stragi che hanno insanguinato tutta Italia, determinando un percorso politico e sociale caratterizzato poi da corruzione, devastazione morale, sanguinarie decisioni. Non è stato solo in queste scelte. Ha avuto ampie collaborazioni di uomini come lui e di gente insospettabile (oggi alcuni in galera). L’ergastolo (i mille ergastoli) a cui è stato condannato fanno sentire alla gente comune che quest’uomo, omertoso fino ad oggi, mai pentito, che morendo porterà con sé segreti pesantissimi, sta scontando il dovuto. Niente di più, niente di meno. Non è vendetta di Stato. E’ applicazione della condanna, l’ergastolo, è quella certezza della pena che non si riesce a rendere effettiva in Italia. Esiste sempre una ragione per cui un detenuto, pur se omicida, può non scontare mai l’intera pena. Con grande gioia del detenuto e infinito scorno per la società.
Il problema in effetti non è l’ergastolo di Totò Riina, in quanto tale, ma lottare con ogni strumento la struttura di cui lui è stato parte importante e influente. Sottrarre il boss all’applicazione del 41 bis viene descritto come atto di umanità ma i parenti delle persone trucidate, sciolte nell’acido, torturate, ammazzate senza pietà, non possono che viverlo come un’ennesima mancanza di giustizia nei confronti dei loro cari. Non si cerca vendetta. Si cerca Giustizia da parte di uno stato troppo spesso latitante e minuscolo di fronte alle mafie.
La società di cui il boss fa ancora parte, Cosa Nostra, come recepirebbe, d’altro canto, questo atto di attenzione nei confronti di Riina? Potremmo ipotizzare che potrebbe essere inteso come l’ennesima debolezza di uno stato imbelle e troppo garantista. Uno stato che vuole sempre la riabilitazione del detenuto, la sua reintegrazione nel contesto sociale, dimenticando che nella realtà esistono persone che, come Riina, non cedono mai, non sentono il peso del rimorso delle azioni compiute, restano uomini di Cosa Nostra. Sono Cosa Nostra. Per questo sono temibili anche da malati. Per il messaggio che trasmettono anche con il loro silenzio. Pari solo a quello della Signora.
Nel frattempo Lei, la Morte, sua vicina, avvicina la forbice al suo filo di vita. Lo stesso che staccherà, un giorno, scrivendo, la parola Fine.

di Patrizia Vindigni

  • il dipinto è Il trionfo della morte. Sconosciuto l’autore, conservato a Palermo.
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