K-lab: la diversità come risorsa

La storia della torre di Babele (Genesi, capitolo XI) racconta del tentativo dell’Uomo di raggiungere le altezze divine con la costruzione di una torre alta tanto da superare il Cielo. Il castigo per questa imperdonabile superbia dell’Uomo, che alza la testa e si prova a sfidare Dio, è la confusione delle lingue. Senza potersi parlare, senza potersi capire, gli uomini non potranno comunicare, nessuna idea avrà più una strada, né un passaggio, ogni scoperta resterà nascosta, nessun pensiero sarà mai condiviso. La storia della torre di Babele ci dice che abbiamo tutti dentro un mondo di cose, ma l’impossibilità di comunicare compromette sul nascere la costruzione di qualsiasi rapporto individuale.

Ci sono ragazzi che non possono parlare: sono quelli con forti disabilità –spastici, autistici- che non riescono a raccontarsi con le parole, che hanno problemi motori e vivono annodati, imprigionati dentro corpi che faticano a controllare. Li chiamano “ragazzi zitti” perché i loro pensieri restano inespressi, compressi dentro i loro corpi imperfetti, come giganti dentro mulini a vento. Non parlano, ma attraverso una tecnica particolare di comunicazione facilitata possono riuscire a scrivere. Non che pigiare il tasto di una tastiera sia per loro un gesto scontato o autonomo: arrivano alla scrittura solo se accompagnati e dopo lunghi anni di allenamento, ma quando finalmente riescono a scrivere, il loro pensiero esce limpido, come se la loro ingiusta fragilità li tenesse alla giusta distanza dalle cose del mondo. Scrivendo raccontano chi sono, sogni e bisogni, hanno voce, hanno luce: finalmente brillano.

“Io non mi vivo come disabile, ma come giovane TEMERARIO ragazzo diversamente capace, come tutti, di fare alcune cose bene e altre meno bene”

Le frasi essenziali di questi ragazzi, così simili a quelle di un copywriter, possono diventare un tesoro con l’aiuto di professionisti della comunicazione: è da questa idea che a Reggio Emilia è nato K-Lab, un laboratorio diversamente creativo che è si occupa di design mettendo insieme le competenze professionali (creativi, grafici, architetti, educatori, designers, scenografi e imprenditori) e quelle dei ragazzi diversamente abili. K-lab ha un sogno grande: non fare beneficenza o assistenza, ma fare economia in modo sostenibile intrecciando mondi diversi: quello creativo, quello imprenditoriale e quello delle persone fragili, riconoscendo loro talento e valore, dando loro giusta dignità e giusto riconoscimento. K-lab è una storia di incontri, un collettivo che sviluppa progetti di comunicazione, pensa, produce e vende oggetti e capi d’abbigliamento che devono essere soprattutto “belli” e commercializzati in luoghi belli. Perché la bellezza è un riscatto, un diritto, è l’aspetto migliore del sogno. Perché la bellezza chiama bellezza, perché aiuta a ribaltare l’immagine pubblica della disabilità, ribaltandola da disgrazia a risorsa, opportunità. Il progetto emiliano K-lab coinvolge circa 350 persone: esiste un nucleo principale, composto dai creativi e dai volontari della associazione K-Lab, e dalla Cooperativa Sociale ONLUS L’Ovile, che ha messo in campo volontà, competenze e anni di esperienza nel sociale. Dai ragazzi disabili a chi si occupa dell’insegnamento della scrittura facilitata, dalle donne vittime di tratta che cuciono capi d’abbigliamento mentre ricuciono le proprie storie, alle sarte, ai modellisti, ai fashion designer di mestiere; dai detenuti che diventano uomini semiliberi in un laboratorio di falegnameria dove realizzano materiale da esposizione, dall’AUSL ai servizi sociali, all’amministrazione penitenziaria, ai volontari, l’idea è per tutti quella di un modo nuovo di fare impresa restituendo al mondo del business un’etica “altra”, andando a cercare non tanto quello che le persone fragili hanno in meno, ma quello che hanno in più.

E mi torna in mente l’ineguagliabile lezione di salvezza di Italo Calvino:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

 

di Daniela Baroncini

 

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