Il distaccato ordine amministrativo delle cose

Che il cinema sia non un mero riflesso, un semplice specchio della realtà, ma direttamente la realtà, lo dimostra questo film di Andrea Segre, un autore e un regista che affina sempre più la sua sensibilità e capacità cinematografiche sui temi di più scottante attualità, come quello dell’immigrazione. In questo caso, il suo film anticipa addirittura la realtà, quella realtà che solo oggi i media cominciano a scoprire e a farci conoscere in tutta la sua drammaticità. Ci riferiamo alle atroci condizioni che vengono inflitte in Libia a migliaia e migliaia di persone che arrivano su quella terra dall’Africa più interna, nella speranza d’imbarcarsi poi per le coste europee. Segre immagina con un anticipo di tre anni (quelli che gli sono serviti per scrivere e realizzare il film) esattamente quello che sta accadendo tra Roma, Tripoli e Bengasi. Un alto funzionario del Ministero dell’Interno, Corrado Rinaldi, è inviato in Libia per contrattare con i vari, contrastanti poteri e ras locali lì presenti le condizioni per arrestare il flusso di migranti che inesorabilmente finiscono sulle coste italiane. La sua missione prevede anche di verificare che nei centri di raccolta e identificazione dei migranti non si commettano palesi violazioni dei diritti umani. Compito che deve svolgere mantenendosi rigorosamente distaccato da qualsivoglia dolorosa vicenda umana che possa avere luogo dentro quei veri e propri edifici di detenzione di massa.

Questa rigida direttiva del distacco amministrativo, della separazione tra contrattazione segreta e suo oggetto umano vivo è la vera chiave tematica del film in quanto direttamente realtà. Chiave che consente a Segre di non ricorrere a scene di brutale trattamento o a condizione di carcerazione e a carcerieri eccessivamente spietati e corrotti. Neanche di ricorrere a nostri poliziotti o incaricati diplomatici eccessivamente stolidi, crudeli e menefreghisti. Anzi, il regista delinea i tratti del protagonista in quelli di una persona fondamentalmente buona, sincera, comprensiva. Una personalità umanitaria, una formazione da umanista, uno di quei personaggi che attira immediatamente l’empatia epidermica dello spettatore, al punto di identificarsi con esso. Attraverso una prova attoriale sensibilissima, Paolo Pierobon, il protagonista, mette la pelle di quello speciale poliziotto internazionale dentro la nostra pelle e ci rende il contatto fisico con il caldo, la sabbia, la salsedine, l’odore e il sudore nello squallore dei cameroni di detenzione, l’aria condizionata degli hotel in cui alloggia.

Nella frattura tra percezione epidermica e indifferenza procedurale amministrativa si origina il trattamento disumano nelle sue crescenti gradazioni verso l’orrore. Il male non si può curare, i rimedi non si possono trovare partendo dagli eclatanti, intollerabili effetti ultimi, ma delle rimosse cause prime. Più noi allontaniamo, non tocchiamo, più gli effetti ultimi si esasperano. È questo che mette in “serenamente” in scena il film. La serenità di un carattere, di un ambiente familiare e urbano, di hobbies e souvenir che si esercitano anche in viaggio e si mettono al ritorno in valigia. Scene, sequenze, movimenti della macchina da presa, dialoghi, colori non urlati ma in sintonia con i modi garbati e i sentimenti silenziosamente sofferti o appena bisbigliati del protagonista.

Dall’altra parte della barriera trasparente che gli frappone la sua missione chi c’è, però? Se devi verificare luoghi e condizioni di ammassamento dei migranti, parlare con essi e con chi li ammassa senza andare per il sottile, puoi realisticamente non essere sfiorato, toccato, per sempre coinvolto? Ecco, il non contatto, il distacco significano per tutti noi spettatori di questa scena migratoria epocale rinunciare a trovare soluzioni all’altezza delle dimensioni planetarie del problema, lasciandolo invece incancrenire come un male non più curabile.

di Riccardo Tavani

Print Friendly, PDF & Email