Nel tribunale della storia anche la parola è guerra

Tony è un meccanico libanese, seguace della destra nazionalista. Yasser è invece un ingegnere edile palestinese, rifugiato a Beirut, che fa il capocantiere per un’impresa locale, non potendo lì far valere la sua laurea. i due vengono a lite per un tubo di scarico delle acque dal balcone di Tony che finiscono in testa ai passanti quando lui pulisce il pavimento. Questo è il banale antefatto del film L’insulto di Ziad Doueiri, ma ciò che ne segue è tutt’altro che banale.

Il direttore dell’impresa per cui lavora Yasser fa del tutto per appianare la lite, nonostante l’atteggiamento inflessibile del libanese e la ritrosia, a dir poco ostinata del palestinese a chiedere scusa. Per una questione di buon vicinato con gli abitanti del quartiere in cui sta operando, è interesse della ditta risolvere tutto quanto prima. Ogni tentativo, però, non solo fallisce, ma da un primo insulto riassumibile in una sola parola (“Cane!”), se ne passa a uno che è una vera e propria sentenza storica di condanna razziale di un intero popolo: quello palestinese. Seguono due costole rotte. Il sassolino del primo insulto rotola giù crescendo, trascinando tutto dietro con un inarrestabile effetto a valanga che si rovescia nelle strade e nelle aule del Tribunale di Beirut.

Tra le due personalità opposte – quella esplosiva, orgogliosa di Tony e quella taciturna ma inscalfibile di Yasser – si innesca un arco voltaico che fa scoccare a sua volta altri corto circuiti a catena. Le parole non sono un mero flatus voci, ma nascondono, sotto la loro forma acustica o scritta, intere stratificazioni storiche, geografiche, belliche. Una volta in Tribunale il film rientra nel genere legal, legale, attraverso uno dei più prestigiosi e anziani avvocati libanesi – con una lunga storia politica alle spalle – e una sua giovane ma abilissima avversaria, senza storia politica sì, ma con una sorprendente vicenda familiare. Presto i giudici capiscono che dovranno giudicare non solo un insulto e una scazzottata, ma un intero tragico secolo di guerra racchiuso in quel piccolo mucchietto di parole dal sen fuggite. Un film che ti lascia costantemente con il fiato sospeso, fino al pronunciamento del verdetto finale, attraverso il quale capiamo davvero il significato più profondo dell’idiomatica espressione “sentenza salomonica”.

Kamel El Basha, nella parte del capocantiere Yasser Abdallah Salameh, vince la Coppa Volpi, per la migliore interpretazione maschile alla Mostra del Cinema di Venezia 2017. Un’interpretazione, una prova, una faccia, una pasta d’attore che con il suo silenzio e la sua minima gestualità ci danno da sole il senso della dignità di un intero popolo.

di Riccardo Tavani

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