Il liceo breve è sempre più realtà. Come, perché, ma soprattutto, ha senso?

Dal 2018 sarà possibile completare le scuole superiori in quattro anni, anziché cinque. Sono infatti stati pubblicati i nomi dei cento istituti superiori che a settembre 2018 avvieranno una classe sperimentale di quattro anni.

 Per queste classi, l’esame di maturità ed il monte ore scolastico totale rimarranno gli stessi e quindi i programmi quinquennali resteranno invariati nei contenuti ma spalmati in meno anni, con più ore scolastiche per anno. L’alternanza scuola-lavoro introdotta dalla Buona Scuola, 400 ore per gli istituti tecnici e 200 per i licei, potrà essere effettuata solamente durante le vacanze. Inoltre, a partire dal terzo anno agli studenti verrà insegnata almeno una disciplina non linguistica con metodologia Clil, interamente in lingua straniera. Infine verranno valorizzate le attività laboratoriali e l’utilizzo di tecnologie didattiche innovative, linguaggio, questo, abbastanza fumoso nel Decreto ma che verrà chiarito dalle singole esperienze.

Dei cento istituti, 44 sono al nord, 23 al centro e 33 al sud. I licei sono 74, con 43 scientifici, gli istituti tecnici e professionali 26. Le scuole paritarie ammontano a 27, le restanti 73 sono statali. Le iscrizioni si aprono il 16 gennaio e se gli aspiranti studenti quadriennali dovessero essere più dei 25 stabiliti per classe, le scuole dovranno indicare dei criteri di selezione per la scrematura.

 Alla pubblicazione del relativo Decreto per il Piano Nazionale di Sperimentazione del Ministero dell’Istruzione il 6 agosto scorso si è sviluppato un acceso dibattito sulla bontà dell’iniziativa. In realtà, quella del liceo breve non è un’idea nuova. La proposta parte da Berlinguer e poi naufraga con le ministre Moratti e Gelmini. È la Ministra Carrozza ad avviare nel 2013 la sperimentazione in 11 scuole, 6 pubbliche e 5 paritarie, che la Ministra Giannini propone di estendere a 60 a partire dall’anno scolastico 2017/2018, senonché per instabilità politica il progetto viene rimandato al 2018 ed esteso dall’attuale Ministra Fedeli alle 100 scuole di cui parliamo ora.

La riduzione degli anni di liceo fa parte di un più ampio dibattito sulla durata complessiva della scuola che vede gli studenti italiani diplomarsi a 19 anni con 13 anni di scolarizzazione. L’obiettivo è quello di portare il diploma a 18 anni, per un inserimento nel mondo del lavoro anticipato di un anno. La discussione in genere riguarda ridurre gli anni scolastici a 12, poiché l’entrata a scuola anticipata a 5 anni è osteggiata da pedagogisti e opinione pubblica e non trova riscontro positivo nei risultati dei test internazionali. Non mi inoltrerò qui nella discussione dell’accorpamento di elementari e liceo in un ciclo unico di 7 anni, considerata l’alternativa al liceo breve e che pure sembrerebbe presentare dei vantaggi come la riduzione della dispersione scolastica, che in Italia è tra le più alte d’Europa, e che beneficerebbe da una riduzione dei momenti di transizione tra cicli scolastici, che da tre passerebbero a due.

 Il mantra a supporto del liceo breve prevede che a livello europeo ci si diplomi sempre a 18 anni, ma a ben vedere questo accade in Belgio, Irlanda, Spagna, Francia, Ungheria, Portogallo, Malta, Regno Unito; mentre ci si diploma a 19 anni in Bulgaria, Danimarca, Estonia, Italia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia; varia invece dai 18 ai 19 anni a seconda degli indirizzi in Austria, Cipro, Olanda, Polonia e Germania.
Esploriamo proprio l’esperienza tedesca per comprendere le possibili conseguenze di un passaggio al liceo breve. In Germania, tra il 2001 ed il 2007 la maggioranza degli Stati Federali ha ridotto gli anni del Gymnasium, la scuola superiore destinata a chi sicuramente vorrà frequentare l’università, da 9 a 8 anni, con una modalità simile a quella dell’iniziativa italiana del liceo breve, ovvero tenendo i programmi invariati ed aumentando il numero di ore annuali. Il risultato è che molti stati stanno facendo marcia indietro, per problematiche che includono un aumento dei ripetenti e una diminuzione dei comportamenti prosociali e delle attività di svago ed extrascolastiche degli studenti, soffocati dall’aumento delle ore e del carico di lavoro.

Nel contesto specifico italiano poi, appare paradossale che a fronte della riforma sulla Buona Scuola, che promuove una scuola sempre più al centro della vita dello studente, con scuole aperte anche il pomeriggio, si proponga un taglio da 5 a 4 anni. I ragazzi dove troveranno il tempo per attività extracurriculari e per una scuola che vada oltre la didattica, con giornate scolastiche più lunghe e maggiore carico di lavoro a casa? E se i programmi venissero invece tagliati, l’offerta formativa si ridurrebbe necessariamente. Ma un buon percorso superiore pesa positivamente una volta all’università ed è specialmente evidente all’estero, dove il confronto con il livello culturale dei coetanei stranieri è spesso riportato come impietoso, con stupore degli stessi studenti italiani, che siano Erasmus o studenti di triennale o specialistica emigrati. Se anche un buon percorso non fosse la norma ed il livello generale della scuola superiore fosse percepito come basso, come si può pensare che caricando ancora più di lavoro studenti ed insegnanti la qualità possa migliorare?

 Inoltre, la retorica delle scuole di 4 anni per chi è molto bravo e si annoia, di 5 per tutti gli altri. Diamo ai “bravi” la possibilità di imparare di più in un percorso che lasci il tempo di crescere come persone. Non riduciamo l’educazione a mero nozionismo (potremo discutere della relazione, e purtroppo spesso contrapposizione, tra Sapere – non nozionismo – ed abilità, le skills, in futuro) da stipare in un arco di tempo sempre inferiore. Gli studenti più bravi non è detto che si annoino perché si studia poco, ma anche perché la scuola non è stimolante. E non sono solamente i più bravi a risentire di questo.

Infine, è necessario entrare prima nel mercato del lavoro per fare cosa? In Italia i livelli di disoccupazione e di precariato giovanile fanno paura. Ma volendo rimanere sul tema della competitività internazionale, un anno non cambia molto a livello di occupabilità di un neo-diplomato o di un neo-laureato, perché sei sempre neo ed un anno di differenza non cambia nulla, specialmente se sei nei tempi. Quello su cui forse si dovrebbe puntare è non costringere uno studente italiano a laurea triennale, specialistica e poi ad un Master per potersi davvero specializzare, per poi dover competere a 25 anni con un europeo che magari ha finito il liceo a 18 e dopo la triennale con la laurea specialistica si è specializzato per davvero e sta entrando nel mercato del lavoro a 23 anni, se non addirittura a 21 se ha conseguito solamente la triennale che nel resto d’Europa gode generalmente di dignità di laurea vera e propria. Se vogliamo guardare alla competitività internazionale, forse è su questo che dovremmo concentrarci, sul rendere le lauree specialistiche tali e non ad una ripetizione delle triennali e a non costringere i ragazzi a frequentare Master aggiuntivi e corsi specializzanti dopo un percorso universitario già completo e, la reputazione dei nostri laureati all’estero lo dimostra chiaramente, spesso di gran qualità.

di Giulia Montefiore

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