Scene da un interno per vertigini e gaglioffi

Karl Marx nel suo libro Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte scrive: “La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”. Lo ha preso alla lettera il regista italo-scozzese Armando Iannucci, quando ha avuto l’idea di girare un film sulla settimana successiva alla morte di Josif Stalin, segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, avvenuta a Mosca il 5 marzo 1953. Non si potevano ripetere cinematograficamente gli aspetti tragici (e in parte misteriosi) di quella pagina storica senza volgerli in farsa. E il risultato ottenuto dà perfettamente a Iannucci. Prima ancora di ridere, infatti, innanzitutto si riflette in questa commedia nera. E il riso è rafforzato dallo stupore che si prova, dalla prima all’ultima scena, nel constatare quanto questa chiave farsesca ci racconti in modo maledettamente serio, vero e nuovo quello che è accaduto attorno a quel tremendo e ingombrante cadavere.

Il film è basato sul fumetto, o meglio graphic novel di Fabien Nury e Thierry Robin. Seguendo il filo di fatti realmente accaduti, il regista innesca una serie di episodi, circostanze grottesche che ci forniscono al contempo sia le maschere che lo smascheramento del ristretto vertice politico che ruotava intorno a Stalin. I reali personaggi storici vengono colti nella nudità delle loro pulsioni caratteriali più banali, meschine, cialtronesche, pavide e infide, pronte ad allearsi e a tradire nello stesso istante. Lo scopo è quello gattopardesco di cambiare tutto per non cambiare niente. E soprattutto di non farsi fare politicamente, ossia fisicamente fuori da chi siede gomito a gomito attorno al tavolo del supremo organismo del potere sovietico, ossia il Politburo, il ristrettissimo ufficio esecutivo del Comitato Centrale del Partito. La danza attorno a quella bara e a quel tavolo è davvero macabra nella sua sguaiatezza, eppure è proprio in questi tratti che improvvisamente ti ferisce, come una lama di rasoio in pieno volto, la verità storica. Beria, Malenkov, Molotov, Bulganin, Kuschev, il generale Zuchov, i figli di Stalin Svetlana e Vasily, tramano, urlano, sbracano ubriachi di vodka e di follia, non tanto attorno al cadavere ancora fresco del dittatore, quanto sulle ferite piagate di un popolo che si tenta di manovrare come un esercito di cenciose marionette al fine di un ulteriore auto accecamento del potere che in suo nome dovrebbe governare per redimerlo dalle condizioni di miseria e sfruttamento cui è assoggettato. La strepitosa resa interpretativa di Steve Buscemi della figura di Nikita Kruscev, il quale svetta sugli altri proprio in virtù della propria cruda ridicolaggine ci dà la dimensione reale dello scontro tra titani avvenuto in quei giorni dentro la dacia di campagna in cui è morto Stalin.

È vero che nella storia agisce sempre la potente legge della necessità, dell’inevitabilità di certi immani accadimenti. Alla luce di questa legge noi cerchiamo anche di scrutare i volti, i tratti fisici e psicologici dei grandi protagonisti della storia umana. Volti, tratti certo anche negativamente tragici, ma – siamo portati a credere – pur sempre grandiosi. Ecco, questo film ci mostra invece il risvolto della grandezza: la piccolezza umana che si eleva solo alzando lo spessore dei tacchi sotto gli stivali della propria presuntuosa gagliofferia e follia. E tanto più infima è la gagliofferia, tanto più vertiginosa sarà la follia. Questa la farsesca tragicità del ripetersi due volte della storia umana.

di Riccardo Tavani

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