Cocò era un bambino di tre anni, ridotto in cenere dalla mafia.

Siamo in Calabria, precisamente a Cassano allo Ionio. Nicola Campolongo, chiamato da tutti Cocò, era un bambino che, nei suoi appena tre anni di età, già ne aveva viste delle belle ed aveva visitato luoghi che nessuno, soprattutto un bambino, dovrebbe mai visitare: carceri, aule bunker, e chi più ne ha più ne metta.
Ultimo dei tre figli di Nicola Campolongo (il suo stesso nome) e di Antonia Maria Iannicelli.
Il papà è chiuso nel carcere di Catanzaro, la madre entra ed esce dal penitenziario di Castrovillari, accusata di appartenere ad un’organizzazione che si occupa dello spaccio di stupefacenti.
La zia è fuori dal carcere, ma è agli arresti domiciliari e si occupa delle prime due figlie di Nicola e Antonia Maria.
Giuseppe Iannicelli, nonno del piccolo Cocò, padre di Antonia Maria, ha 52 anni e come il resto della famiglia è legato alla malavita. È legato alla cosca degli zingari e gestisce il traffico di droga nella zona dell’alto Jonio cosentino e cerca di “mettersi in proprio”, ma è il primo a sapere che questa decisione lo mette a rischio di vita. Nonostante ciò, anzi forse proprio per questo, l’uomo decide di portare sempre con sé il piccolo Cocò, perché “la Mafia non uccide i bambini”.
E invece no.
La Mafia i bambini li uccide eccome, ed il piccolo Cocò sarà uno di questi, né il primo né l’ultimo ucciso da sanguinari uomini senza un cuore per coprire i loro loschi affari.
Il 16 gennaio del 2014 Cocò, il nonno e la sua giovane compagna, sono stati bruciati vivi nell’automobile del nonno con circa 15 litri di benzina. I corpi sono stati completamente logorati dalle fiamme, al punto che inizialmente non si riuscisse a capire bene quante fossero le vittime.
È stata ritrovata una monetina da 50 centesimi, che nel linguaggio mafioso sta a significare che l’uomo ucciso non valeva nulla.
Lo scalpore invade la cronaca italiana, perfino Papa Francesco durante l’Angelus ricorda Cocò. I genitori sono disperati, la madre dice di volersene andare dalla Calabria con le sue due figlie per assicurare loro un futuro migliore.
È quindi servita la morte di suo figlio per farle capire che dei bambini non possono crescere in un ambiente del genere?
Come si fa a mettere al mondo dei figli e “lavorare” in certi ambiti, senza sapere che tutta la famiglia viene messa in pericolo?
Magari Cocò andava affidato a qualcuno in grado di pensare al suo bene, alla sua salute ed al suo futuro, piuttosto che ad un nonno con “aspirazioni imprenditoriali” nell’ambito dello spaccio di droghe?
Sicuramente sì. A cosa servono, dunque, gli assistenti sociali?
Cocò è morto di tante cose. È morto per colpa della Mafia, è morto per colpa di una famiglia che non ha pensato al suo bene ed è morto per colpa dello Stato Italiano, che non ha saputo tutelarlo dallo schifo che lo circondava.

di Ludovica Morico