I dazi tra Cina e Usa, simbolo di uno scontro più grande

“Senza scambio, non c’è progresso”, scriveva il grande reporter e viaggiatore polacco, Ryszard Kapuscinski. Un concetto, quello del libero scambio, che negli ultimi tempi ha perso fascino. Ma, il fatto più rilevante è che a rilanciare l’idea del protezionismo siano gli Stati Uniti, da sempre paladini del commercio libero e multilaterale. L’amministrazione Trump ha, infatti, deciso prima di imporre dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio (rispettivamente, del 25% e del 10%), e poi altri 60 miliardi di dollari su oltre 1300 tipi di beni che gli Stati Uniti introducono dalla Cina. L’obiettivo di Trump è di colpire il surplus commerciale che la Cina detiene nei confronti degli Stati Uniti (circa 340 miliardi di dollari).
Quello di Trump, è un vero e proprio schiaffo all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), istituzione creata per dirimere controversie commerciali e di cui l’America aveva di fatto la leadership ideologica. Proprio all’Wto la Cina ha presentato una denuncia contro le manovre americane, che secondo il governo cinese, violerebbe le norme commerciali internazionali.

La retorica di Trump traduce ogni cosa in un gioco di forza, e anche i deficit commerciali diventano cosa da perdenti. Avere una bilancia commerciale in passivo, in realtà, non è di per se un fatto negativo. Può essere un problema quando l’economia è in recessione e la disoccupazione è alta, mentre attualmente l’economia americana è in ripresa.
Non si può non tener conto, inoltre, che gli Usa attraggono molti più investimenti da parte di stranieri rispetto a quanto gli americani investano all’estero, e questo incide molto in termini di deficit. L’aspetto non riguarda, quindi, solo le politiche commerciali.
Nel caso cinese, poi, il rapporto è così sbilanciato anche per le specificità del gigante asiatico. Molti dei beni che l’America importa dalla Cina sono, in realtà, prodotti altrove. Infatti, la Cina è dove le componenti prodotte da altri paesi vengono assemblate in prodotti di consumo.
Un’altra critica mossa alle scelte del governo americano è che dazi bilaterali possono ridurre il deficit con quel determinato paese, ma tendono ad aumentare il deficit con altri paesi, dato l’elevato grado di interconnessione dell’economia mondiale. L’effetto netto è, perciò, quello di un deficit totale sostanzialmente invariato.

D’altronde, è vero che non sempre il comportamento della Cina nel commercio internazionale è stato perfettamente limpido. Soprattutto sulla proprietà intellettuale, i cinesi vengono accusati di impossessarsi di tecnologie da altri paesi senza pagare un prezzo adeguato. Ma quella del deficit sembra, piuttosto, un pretesto per una preoccupazione più grande. La Cina non è più, o meglio, è sempre meno quella miniera d’oro per le aziende dei paesi avanzati. La competitività delle imprese cinesi è in crescita, così come i salari dei lavoratori. Il governo cinese è concentrato ora ad evitare la cosiddetta trappola del reddito medio. Perciò, la strategia cinese punta ad aumentare l’innovazione e a diventare il leader globale nei mercati del futuro, come la robotica o le energie rinnovabili. È questo ciò che spaventa gli Stati Uniti, vedersi sfilato il primato di prima potenza economica.

Come sa bene anche la Gran Bretagna, nel lungo periodo non c’è una potenza che abbia resistito al tempo. L’America sa di non essere esclusa da questa realtà. Di fatto, la Cina ha già superato gli Stati Uniti per Pil a parità di potere d’acquisto, per peso commerciale e per produzione manifatturiera.
Se, però, è davvero questa l’ottica di Trump, difficilmente basteranno i dazi. Ma, anzi, non faranno altro che favorire una minoranza di lavoratori in alcuni settori protetti a scapito di tanti altri. Se si considera che quasi due terzi dei cereali americani vengono esportati, una guerra commerciale potrebbe finire per danneggiare soprattutto quell’America rurale che è stata proprio alla base dell’elezione di Trump.
di Pierfrancesco Zinilli

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