La guerra oltre la benda. A private war

Cosa spinge un giornalista, una giornalista a collocarsi su quella stessa linea di confine tra la vita e la morte su cui una guerra pone l’esistenza dei soldati che la combattono e delle popolazioni civili che la subiscono? Cosa ricercano dietro le scariche delle mitragliatrici, le pallottole vaganti, i colpi di precisione dei cecchini, i cannoneggiamenti d’artiglieria, il lancio di missili, i bombardamenti aerei? Perché hanno bisogno di correre anche loro in mezzo alle macerie, scendere sotto i rifugi, schiacciarsi in terra tra morti, sopravvissuti e feriti? Questo film di Matthew Heineman, A private war, Una guerra privata, ripropone tutte queste e altre domande in modo altamente drammatico e spettacolare, narrandoci la vicenda e i reportage di Marie Colvin, una delle più grandi croniste di guerra fin dall’inizio della sua carriera, nel 1985, come inviato per il britannico Sunday Times. Nonostante abbia ricevuto i più alti riconoscimenti in campo giornalistico, tra cui diversi e consecutivi premi – tra il 2000 e il 2012 – quale reporter dell’anno, Marie Colvin resta – soprattutto in Italia – una figura poco conosciuta, proprio perché la sua vita si è svolta più tra le trincee belliche che su quelle glamour e mass-mediatiche. L’aver restituito la concreta grandezza di questa figura è già in sé il primo merito del film. Il secondo è che lo fa attraverso quel realismo che oggi le tecnologie cinematografiche consentono, scaraventando, epidermicamente, anche lo spettatore tra quelle macerie, gomito a gomito, occhio a occhio con la reporter bendata.

Il realismo dell’opera è dovuto anche ad altri due fattori. Il primo è che il regista, Matthew Heineman, proviene dal cinema documentarista; il secondo – una vera e propria gemma del film – è l’attrice Rosamund Pike, che interpreta Marie Colvin. Si dovrebbe dire che letteralmente le ridà corpo, alla luce anche delle immagini di repertorio che alla fine ci vengono mostrate. Prima giornalista ad intervistare Mu’ammar Gheddafi durante i bombardamenti americani sulla Libia del 1986, perse un occhio per l’esplosione di una granata nello Sri Lanka: “La guerra non è così terribile per chi governa: non viene ferito e ucciso come la gente comune”. Questa frase esprime bene una delle ragioni che spingevano Marie Colvin a stare dentro le trincee, sotto i rifugi, mescolata ai massacrati fisicamente e moralmente di una guerra. Dare loro voce, immagine, verità, ossia proprio ciò che ogni conflitto bellico mette brutalmente a tacere. E questo ha fatto sì che il suo lavoro di reporter diventasse la sua stessa vita. Ogni guerra era anche una guerra contro l’interezza dell’esistenza in lei. In questo senso privata: nell’umano riflesso del plurale dentro l’individuale.

Iran, Iraq, Medio Oriente, Libia, Guerra del Golfo, Kosovo, Cecenia, Timor Est, Etiopia, Zimbabwe, Sierra Leone, Sri Lanka, Guantanamo, Egitto, Afghanistan, Siria: queste le sue traiettorie, le rotte degli aerei che prendeva per scaraventare quel suo urto privato dalle macerie sulle colonne pubbliche del suo giornale, sui media internazionali. Nel 1999 riesce a salvare 1500 donne e bambini, rimasti intrappolati dentro una morsa mortale stretta dalle truppe indonesiane. Scrive: “I reportage di guerra sono cambiati negli ultimi anni. Ora andiamo in guerra con un telefono satellitare, un portatile, una videocamera e un giubbotto antiproiettile. Ma l’essenza del giornalismo di guerra è sempre quella: qualcuno deve andare laggiù e vedere cosa succede”. Lo spirito forse, non la capacità dei comandi militari di individuare esattamente gli obbiettivi da colpire, fossero anche le reporter di guerra scomode come lei. Tra satelliti, droni, sistemi informatici sempre più sofisticati nei loro algoritmi, la guerra diventa sempre più tecno-scientificamente spietata. Per questo ai reporter di guerra oggi gli eserciti chiedono di essere embedded, ossia incorporati. Incorporati, protetti ma anche limitati nei movimenti, negli sguardi, nei pensieri, nei reportage: ossia censurati sotto gli elmetti e ben dentro le trincee. Marie Colvin aveva sì una benda sull’occhio sinistro, ma vedeva meglio di tanti questo fare morte, in cui consiste quella privata e pubblica volontà di potenza umana che ha nella guerra solo la sua ultima e più atroce espressione.

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