Cosa rimane della poesia di De Andrè, in noi, nella società, a vent’anni dalla sua morte

Si possono scrivere fiumi e fiumi di parole, sulla poetica, sulla musica, sul pensiero, sull’immagine di De André: vent’anni dopo la sua morte, le lacrime di coccodrillo dei suoi detrattori, le frasi di circostanza dei pennivendoli, o i vecchi servizi d’archivio riproposti a mo’ di copia-e-incolla fanno quasi rabbia, oltre che provocare un senso di sordo dolore.
Ricordo lucidamente ciò che ho provato nel momento in cui sentii dal telegiornale la notizia della sua morte, anche se la mia memoria ha cancellato molti di quei particolari secondari, normalmente vivissimi. Allora, le immagini di repertorio commentate da frasi di circostanza, ferirono la mia sensibilità al pari di quella notizia. Per me, con lui non era morto solo un personaggio conosciuto e amato, ma quasi uno di famiglia, dato che con le sue canzoni avevo imparato tanto, in primis ad andare oltre l’apparenza e la patina di pubblica immagine, che offusca il giudizio e l’umanità.
Conosco molte sue canzoni, un po’ ne ho anche cantate e fatte ascoltare ai miei figli, un bel po’ hanno influenzato le mie scelte di vita e politiche, molte sono indissolubilmente entrate nella mia anima e mi hanno reso, nel bene e nel male, ciò che sono. Ricordo ancora con gioia, il piacere di quando mio padre mi portò a vederne il concerto al Festival de l’Unità di Roma: allora, dai monologhi tra una canzone e l’altra di quell’uomo schivo, appresi ancor più che dalle sue canzoni, perché consolidai quel messaggio tanto sentito in famiglia sulla coerenza alle proprie idee. In particolare, ricordo che commentando una presa di posizione sulla pena di morte, di un ministro DC, lui ricordò il messaggio d’amore della parola di Cristo, lui che da ateo aveva perdonato i suoi rapitori, prima d’intonare “Hotel Supramonte”.
Sono sicuro che avesse anche lui i suoi umani difetti, al di là di quelli biograficamente ricordati. Sono certo che anche lui avesse le sue umane contraddizioni, al di là di quelle che si ritrovano su siti e pubblicazioni. Sono sicuro che lui fosse solo un essere umano e nulla di più, ma sono altrettanto sicuro che persone come lui siano rare e che siano importanti per la coscienza collettiva. Ed è questo che, oggi, mi è rimasto fortemente impresso nell’anima: in vent’anni, la società ha avuto un forte e fertile silenzio, in cui è cresciuto il risentimento verso gli ultimi, l’aridità verso i più sfortunati, la mancanza di punti di riferimento etici, per le nuove generazioni.
In questi vent’anni di silenzio, l’egoismo spudorato ha sostituito la solidarietà, impoverendo il pensiero e rendendo più sterile la società. In una sua vecchia canzone, “Spiritual”, parlando al Dio del cielo, diceva: ”…e se c’hai dato il pianto ed il riso, noi qui sulla terra, non l’abbiamo diviso…” Oggi, mentre c’è chi si vanta pubblicamente d’aver buttato i poveri averi di un clochard in un cassonetto, mentre nell’indifferenza di un continente si lasciano dei disgraziati in balia del mare, mentre si specula sull’odio e sul dolore in una società che è comunque “fortunata” (…), questi vent’anni di silenzio della voce, ascoltata, di un uomo ostinatamente avverso al facile vento del conformismo, sono diventati assai pesanti.
La cattiveria, la mancanza di empatia verso gli altri, dominano il panorama umano e ci rendono eticamente più poveri e meno umani. In questi vent’anni, nessuno ha preso in mano il suo testimone e ci ha ricordato che siamo tutti figli di una stessa ed unica razza, quella umana. Forse papa Bergoglio, ma non è la stessa cosa, perché la sua autorevole voce non viene dal basso, perché le sue parole non vengono cantate ed il suo messaggio non arriva alle anime, come invece arrivavano i versi di De André. In tutti coloro che lo hanno amato, ma che hanno dimenticato il senso delle sue parole, questi vent’anni di silenzio hanno lasciato solo un deserto brullo ed inospitale nell’anima. In coloro che lo hanno amato e che ancora lo amano, forse non rimane che il dolore alla vista di un mondo che è l’opposto da quello che lui avrebbe voluto.
Chissà se oggi avrebbe cantato dell’imbecillità da social, aiutandoci a relativizzarne l’importanza. Chissà se avrebbe messo alla berlina chi si fosse erto a difensore di un mondo fatto di muri e confini chiusi. Chissà se avrebbe contribuito a mantenere la coerenza nella sinistra, affinché non perdesse la sua identità ed i suoi valori. Chissà. L’unica cosa che mi sento di dire, personalmente, è che mai come in questi anni, il silenzio di una voce è stato tanto assordante e doloroso.
Credo che tutti noi che teniamo dentro l’anima le sue canzoni, abbiamo il dovere morale di non farle dimenticare. E non solo cantandole.

di  Mario Guido Faloci

Print Friendly, PDF & Email