Cine-pillole senza prescrizione medica

American Animals. Non tiene. Accanto a quattro giovani attori vediamo e ascoltiamo ogni tanto i veri quattro autori di una singolare rapina avvenuta nel 2003 in Kentucky, Usa. Bene. Questo basta a farne un bel nuovo film su un vecchio genere cinematografico? In circa due ore di proiezione, assistiamo prevalentemente alle nevrosi isteriche di quattro sfigati universitari che si riuniscono nelle loro cantine per progettare il colpaccio. Con i veri ragazzi di allora – oggi più grandicelli – che appaiono e ci forniscono delle spiegazioni che non alzano di una tacca la suspense. I toni cromatici delle inquadrature, tendenti allo scuro sotterraneo, neanche.

Juliet, Naked. Sentimentale con brio. Struttura narrativa scontata: 1. Difficoltà iniziale; 2. Realizzazione amorosa; 3 Brusca interruzione; 4) Ritrovamento. Non manca, però, qualche gradevole variazione sul tema. Annie desidera più o meno dichiaratamente un figlio, ma Duncan il marito prof universitario non ci pensa proprio. Lei si scrive via web con Tucker, una vecchia rockstar americana. Lui ora è in disuso e ha una cinquina di figli avuti da altrettante mogli-compagne. L’amore prima stenta, poi in rapida sequenza: esplode e implode. Ma alla fine… Brava, aggraziata, intrigante Annie, interpretata da Rose Byrne.

Rocketman. Non magico. Il regista Dexter Flecther ha fatto anche – insieme a Bryan Singer – l’ormai già cult Bohemian Rapsody (2018), su Freddie Mercury e The Queen. Tenta di rinnovare il colpaccio con il biopic su Elton John, ma non è la stessa magia. La rock star inglese è ancora viva e soprattutto vegeta, felicemente omo-sposata, e da ventott’anni fuori da alcol e droghe. Questo costringe a una diversa strategia narrativa e a un differente genere cinematografico. Siamo, infatti, al genere musical, e per rendere credibile il maledettismo del personaggio si deve ricorrere alla cosiddetta ferita interiore. Non essendo stato amato per tutta la vita dal padre, e poco anche dalla madre, ecco la fonte della sua sofferenza che drammaticamente ce lo empatizza. Per la magia, però, non bastano empatia e qualità musicale-attoriale.

Selfie. Neorealismo mobile. Napoli, rione Traiano, estate 2014. Un carabiniere slitta, dice, su suo un suo colpo di pistola. Fredda Davide Bifolco, 16 anni, inseguito perché scambiato per un latitante. Il regista Agostino Ferrente, tra i maggiori esponenti del documentarismo italiano, incontra lì due amici di Davide, altri due sedicenni, e attraverso loro ci restituisce uno spaccato autentico di quella zona umana oltre che lacero-urbanistica partenopea. Due guaglioni lontani – per consapevole scelta – dal crimine giovanile: uno barista, l’altro apprendista parrucchiere. L’idea di Ferrente è quella di affidare le riprese agli stessi due ragazzi, attraverso un cellulare, a mo’ di video-selfie. Si tratta, però, veramente di questo? Non proprio, dato che le situazioni, le immagini e le inquadrature sono alla fine sempre sorvegliate, scelte e decise dal regista. Si vede dalla loro qualità. Para Selfie, però, non lo si poteva intitolare.

L’uomo che comprò la luna. Stralunatissimo. All’inizio commedia nuragico-demenziale, con imitazione spassosamente perfetta su tutti i luoghi comuni e cliché sulla sardità. Un imbranato militare di origini isolane viene incaricato dai servizi segreti di scoprire l’uomo che in Sardegna ha legalmente comprato la Luna. Verso la fine il film si sposta su tonalità poetico-esistenziali molte intense e sorprendenti, con una marina notturna pietrosa e suolo lunare da capogiro.

L’angelo del crimine. Conturbante. Carlos, un biondino efebico, lunghi capelli a boccoli, sarebbe un’intelligenza superiore in ogni campo. Lui, però, la applica ai furti con effrazione. Ruba per regalare. Alla scuola tecnica conosce Ramón, il suo opposto fisico e caratteriale. Per questo gli piace. Si unisce a lui e a suo padre, costituendo una banda che consegue immediatamente bottini eclatanti. Sullo sfondo la dittatura militare argentina. Rielaborato drammaticamente da una storia vera, il film tocca note esistenziali profonde, attraverso l’angelica leggerezza del male nello sfiorare appena un grilletto di pistola e freddare indifferentemente anche un amico.

Stanlio e Ollio. Sorprendente. Lo danno ancora in qualche sala. I due celebri comici nel tratto finale della loro vita e della loro carriera. Sono ingaggiati per una abborracciata tournée teatrale in Inghilterra. Scarsissimo pubblico, indifferenza generale, mentre Ollio – già malato – aspetta notizie che non arrivano di un film che dovrebbe girare per la prima volta senza Stanlio. Caratteri e sensibilità umane contrastanti, antichi risentimenti e rimpianti, in scene e oltre il sipario nell’intimità con le rispettive mogli. La tournée cresce però di città in città, ma anche il disagio tra i due e la malattia di Ollio. Commozione, grazia e divertimento si intrecciano in una recitazione superlativa di Steve Coogan e John C. Relly. Per la prima volta capiamo chi erano veramente questi due.

Fiore Gemello. Scarso. Basimè un giovane migrante della Costa d’Avorio, sbarcato in Sardegna, ma con il sogno di risalire l’Europa del Nord. Anna è in fuga tra i boschi dell’isola. Frammentari flash-back in forma di ricordi dicono da cosa scappa. Basim e Anna inesorabilmente s’incontrano e cominciano a camminare clandestinamente insieme. Non basta avere buone intenzioni per fare un buon film. Ci vogliono soprattutto buone idee-capacità cinematografiche. E qui non ci sono. Troppo schematicamente narrato, fotografato, immaginato.

Dicktatorship – Fallo e basta. Delizioso. Il sottotitolo ha il suo bravo doppio senso. Il documentario, infatti, indaga con grazia e ironia il tema maledettamente serio del radicamento patriarcale, omofobo e fallocentrico nella psiche, nella morale, nelle vite quotidiane non solo italiche. A condurre l’indagine, in bicicletta, in gondola, in treno, in aereo, è una spassosa coppia gay, Gustav Hofer e Luca Ragazzi, autori e registi del film. Testimoni da Rocco Siffredi, a Laura Boldrini, al Popolo della Famiglia. Ci fanno meritoriamente scoprire la veneziana Elena Lucrezia Cornaro (o Corner), la prima donna al mondo a conseguire un dottorato universitario nella seconda metà del 1600. Proprio per questo la toponomastica italiana ha totalmente cancellato il suo nome dalle nostre via. Si caricano loro sulle spalle il compito di dedicargliela una strada nel film.