Soffrire insieme

La bontà non va più di moda, scrive padre Enzo Bianchi il priore della comunità di Bose, in una sua riflessione su la Repubblica, dal titolo “La compassione perduta”. Per anni ho insistito preoccupato sui piccoli passi quotidiani verso la barbarie: ormai vi siamo immersi, così che sentimenti ed emozioni di cui un tempo ci si vergognava, almeno in pubblico, ora sono esibiti come trofei di guerra. Specularmente, atteggiamenti di solidarietà, condivisione, bontà, compassione vengono sfigurati e irrisi…la compassione è morta. Sembra morto quel sentimento per cui, raggiunti dalla sofferenza di un altro, ci facciamo carico del suo dolore, fino a sentirlo con lui come nostro: il dolore dell’altro diventa il mio dolore.

Padre Enzo Bianchi scava nel nostro profondo per indurci a riflettere su chi siamo, su chi eravamo e su chi vogliamo essere. Riesce a far affiorare, dal buio delle viscere, dove lo avevamo nascosto, il sentimento della compassione vissuta come solidarietà degli uni verso l’altro. “Il dolore dell’altro diventa il mio dolore” compatire è essenzialmente “soffrire insieme” qualità umanissima che non è mai stato facile vivere in profondità, ma che oggi viene sbeffeggiata come buonismo da anime belle. “Soffrire insieme” è condividere totalmente la quotidianità del prossimo, il nostro prossimo, così vicino da essere un tutto con noi. Ma la spettacolarizzazione del dolore, operata dai mezzi di comunicazione, l’esibizione della sofferenza, dell’orrido, del macabro in diretta televisiva, da un lato ci abitua alla visione del male, tenendolo di fatto lontano attraverso la mediazione del mezzo di comunicazione, dall’altro lo soffoca, riducendolo a un’emozione morbosa, ciò che dovrebbe invece essere una chiamata, una domanda a cui rispondere.

I media diventano barriere, muri tra noi e il dolore del prossimo e ci condannano sempre di più a un quotidiano di solitudine e di isolamento. Una solitudine che annulla il “soffrire insieme” come condivisione di una condizione che supera le barriere delle etnie, delle religioni, delle razze e ci rende umilmente “sorelli” cioè figli di una unica immensa grande divinità dai più svariati nomi. Non siamo più un grado di diventare prossimi dell’altro: diventiamo con facilità prossimi virtualmente e moltiplichiamo la nostra prossimità virtuale con contatti “liquidi” inversamente proporzionali alle relazioni concrete “solide”. Il soffrire insieme, la solidarietà, il mutuo soccorso, il sostenersi tra esseri umani segnati dalla sofferenza, il “patire e tribolare insieme”, si è tramutato, dapprima nel linguaggio e poi nei comportamenti, in una ricerca ossessiva dello star bene da soli, senza gli altri, anzi contro di loro.

Questo il quadro della politica urlata, e del messaggio dei media asserviti, ma non dobbiamo rassegnarci a trasformare questa deleteria tendenza maggioritaria, questa deriva sovranista-razziale, in sentimento universale. “È necessario uno sforzo di autentica resistenza non solo per sostenere in prima persona l’etica della compassione, ma anche per saper discernere, riconoscere, dare voce a chi la solidarietà verso i propri fratelli e sorelle in umanità non ha mai smesso di mostrarla e continua a farlo nel silenzio di tanti o addirittura nel dileggio dei molti”. Soffrire insieme per resistere alla disumanizzazione urlata dalla pancia di una relativa maggioranza che esclude e emargina. Soffrire insieme per condividere il dolore e la sofferenza dell’altro. Gioire con lui per vivere la compassione e sentirsi “sorelli” in un mondo che ci vuole divisi. La compassione muore dove noi la uccidiamo giorno dopo giorno, scrive padre Enzo Bianchi, ma la dignità umana è viva là dove anche una sola persona riconosce il proprio simile nella sofferenza, si china su di lui, lo abbraccia e così facendo lo salva. Perché chi salva una vita, salva il mondo intero.

di Claudio Caldarelli

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