La Libia e le torture nei campi di detenzione: immagini choc

Immaginate una giovane eritrea che viene appesa a testa in giù, mentre urla e viene bastonata ripetutamente nella “black room”, la sala delle torture presente nei centri di detenzione per migranti. Immaginate che le sue urla, il suo pianto, il suo terrore, i suoi occhi impauriti, le sue mani sulla faccia, tra i capelli a schivare i colpi, vengano ripresi in un video da spedire ai familiari della donna allo scopo di estorcere soldi per salvare la figlia. Ebbene, tutto questo è realtà, una sequenza di immagini estrapolate da questo video choc sono state pubblicate su alcuni quotidiani, hanno fatto il giro del mondo, mentre noi eravamo intenti ad affettare panettoni ancora rimasti impacchettati dopo i cenoni delle festività natalizie.

Questo è quello che accade a Bani Walid, centro di detenzione “informale”, in mano alle milizie libiche. Ma non facciamoci illusioni, perché anche nei centri ufficiali di detenzione, dove i detenuti sono sotto la “protezione” delle autorità di Tripoli pagata dall’Ue e dall’Italia, la situazione sta progressivamente peggiorando. E peggiora con cibo scarso, nessuna assistenza medica, corruzione, violenze, soprusi. Luoghi in cui la vita è meno di niente.

In Libia, stima il “Global detention project”, vi sono 33 galere nelle quali possiamo trovare 40.000 rifugiati e richiedenti asilo, oltre a detenuti africani non registrati la cui stima è impossibile. Cifre che non esistono, vite fantasma in cui la morte diventa quasi auspicio di una fine anelata, richiesta ad un Dio qualsiasi sia il suo nome, forse un po’ distratto ma l’unico a cui gridare “basta”. Basta qualsiasi sia la fine. Stop a torture e violenze. Solo un’ invocazione, quella di porre fine a tutto quanto.

Ebbene le immagini della ragazza del Corno d’Africa appesa, sono ben radicate nella mia mente. Le vedi una sola volta e ti seguiranno per sempre. La vita di questa donna vale 12.500 dollari. E io, a questa giovane eritrea voglio dare un nome, un nome di fantasia perché non sia un numero o una tra tante anche per noi. Per me è Halima.

Ma nessuno interviene né per Halima né per tutti gli altri. Così continuano le cronache dell’orrore da Bani Walid, considerato da tutti il più crudele luogo di tortura della Libia.

Solo negli ultimi giorni un altro detenuto è morto in questo luogo per le torture inferte con bastoni, coltelli e scariche elettriche visto che non poteva pagare. Sei morti in due mesi.

Quando si apre la connessione con l’inferno vicino a noi, arrivano sullo smartphone con il ronzio di un messaggio, foto disumane e disperate richieste di aiuto, parole di angoscia e terrore che in Italia e nella Ue abbiamo ignorato girando la testa dall’altra parte.

Mi chiedo da quale parte girando la testa si può fingere di non vedere, di non sapere, come possano certi messaggi, certe foto non rimanere dentro, aggrappati alla ragnatela dell’anima, come si può fingere che tutto vada bene, come si può vivere senza una coscienza, dei sentimenti, come si può chiudere gli occhi la notte e addormentarsi senza pensarci.

Perché quello che accade in questo bazar di esseri umani è noto alle autorità libiche, ai governi europei e all’Unhcr. Ma nessuno può o vuole fare niente.

E allora il mio pensiero va ad Halima, la donna che oggi vediamo appesa a testa in giù perché io la voglio immaginare libera, con mille cicatrici ad intessere la geografia dell’orrore ma libera, finalmente libera di vivere, talmente forte da ritrovare la sua dignità, il suo orgoglio, così determinata da afferrare la vita per le mani e andare avanti con la fierezza di chi vince combattendo solo con la propria forza interiore.

Non voltate mai la testa dall’altra parte, perché un giorno, dall’altra parte ci sarete voi.

E io, sia pur virtualmente, abbraccio Halima.

Perché Halima sono io. Perché Halima è tutti noi.

di Stefania Lastoria