Clochard, una vita che vale meno

Daniela Baroncini

Contare i senzatetto è come contare le stelle. Bisogna star svegli di notte per vederli quando si fermano a dormire. Il loro numero è sempre approssimato per difetto: a sapere quanti sono non ci si riesce mai. Senza contare quelli che vivono nelle baraccopoli, nei campi nomadi e negli edifici dismessi, gli homeless oggi in Italia sono più di 50.000 e sono tanti. Tanti quanti gli abitanti di una città come Chieti, per esempio. Ma alla prossima conta saranno molti di più: già destinati a una vita per strada, ancora in bilico tra il decoro di un letto con le lenzuola e il bordo sporco di un marciapiede, ci sono tutti quelli che ormai faticano a pagarsi un pasto completo: precari, sottoccupati, cassaintegrati a zero ore, lavoratori scoraggiati che ormai si sono arresi e non compaiono più nemmeno sulle liste di disoccupazione. Se ancora calano (come calano) le possibilità di impiego, se ancora si spende poco (o quasi niente) per l’inclusione sociale, parlare dei senzatetto è considerare una pericolosa “opportunità” che appartiene a tutti noi: la deriva verso la povertà sembra irrefrenabile e la possibilità di perdere improvvisamente i legami che ci tengono ancorati al mondo regolare non è poi così remota.
Non viviamo più i giorni del vagabondaggio per romantica scelta: “a modo mio, quello che sono l’ho voluto io”. Oggi chiunque può trovarsi costretto a dormire su una panchina in Piazza Grande per una serie infinita di sconfitte: la perdita del lavoro, una dipendenza, un problema con la legge, uno sfratto, una separazione, un lutto o un abuso tra le mura domestiche, la clandestinità, per storie tutte diverse tra loro, ma con lo stesso identico finale.

“Certe volte si dice che il mondo casca addosso. Si dice tanto per dire. Invece è vero. Senti un botto dentro, nel petto, poi a salice piangente nelle gambe e nelle braccia, un colpo e un vuoto, e appresso viene giù tutto, la libreria, il calendario, le cazzate, tutto…”
(Zorro, Margaret Mazzantini)

Vagabondi, senza tetto, barboni, homeless, clochard: sono questi i termini utilizzati per gli “invisibili”, quelli che tendono una mano d’elemosina sulla via centrale delle città, additati come indecorosi parassiti della società, vittime di pregiudizi di massa. Sono giovani, hanno un’età media di 40 anni, molti sono immigrati, ma tra loro c’è una componente importate di italiani. L’alcool è il loro peggior nemico, qualcuno finisce in strada a causa della sua dipendenza, altri cominciano a bere dopo, per combattere la disperazione. Continuano così, in un drammatico effetto a catena: più bevono e più si staccano dal mondo, fino ad arrivare a conseguenze estreme: l’alcool li uccide se sopravvivono al freddo. Prigionieri di un tempo vuoto (che non sanno come occupare), di un sacco sulle spalle pieno di tutto quel poco che possiedono (e che non sanno dove lasciare), camminano fino ad accumulare la quantità di stanchezza necessaria per dormire la notte; nei giorni tutti uguali arrivano a sera senza nessuno con cui parlare, in un dialogo ininterrotto con se stessi. Ai margini della società, dimenticati, esclusi dalle liste anagrafiche e quindi senza nemmeno più un nome, gli homeless hanno la continuità dei pasti garantita quasi esclusivamente dall’assistenza delle associazioni di volontariato.
Eppure la Costituzione italiana, all’articolo 3, dichiara che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. É compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.”
Arrivare ai sussidi statali è complicato e difficile, soprattutto per gli stranieri; la spesa statale per risolvere l’emergenza dei senzatetto é insufficiente e inferiore a quella di molti altri stati europei. La condizione dei senzatetto è il margine sul quale la nostra civiltà si sfalda, incapace di riconoscere il bisogno proprio là dove si fa più evidente. Dove non arriva lo Stato provano ad arrivare almeno le opere di misericordia, molte compiute dal mondo cattolico. In questi giorni il Papa, al termine dell’anno giubilare, ha incontrato i senzatetto. Ha chiesto loro perdono per tutte le volte che un cristiano davanti a una situazione di povertà ha voltato la testa da un’altra parte. Un “mea culpa” che il mondo laico si guarda bene dal pronunciare. Mai abituarsi alle persone scartate, ha detto il Papa; la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo, recita il salmo 117. La Repubblica Italiana ha un debito con la Chiesa di Papa Francesco, una Chiesa che chiede di cercare Dio negli ultimi, nei poveri, nei dimenticati, nei migranti, nei senzatetto. E se vuoi vedere Dio, diceva Sant’Agostino, hai a disposizione l’idea giusta.

di Daniela Baroncini

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