Trump? È il tramonto della politica, bellezza!

tavaniSolo il regista Michael Moore lo aveva chiaramente e motivatamente detto, inascoltato nella calura della scorsa estate americana: “Questo miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time, e sociopatico a tempo pieno, sarà il nostro prossimo presidente”. Aveva elencato in cinque sintetici, inscalfibili punti le ragioni di tale esito ma giornalisti, opinionisti, anchor men, artisti, politologi, sondaggisti anche dell’area repubblicana, della destra finanziaria, internazionale non l’hanno voluto ascoltare. Anzi: non hanno potuto ascoltarlo. A parte qualche eccezione, di carattere più statistico che di merito analitico. Perché? Perché tutto il complesso intreccio mediatico, intellettuale e percettivo è ancora condizionato dal vecchio, glorioso paradigma occidentale del primato della politica quale massima arte architettonica umana, come la definisce Aristotele.

Cos’è la politica, infatti, se non proprio la capacità dello Stato di tessere, architettare durature mediazioni, compromessi, equilibri, pesi e contrappesi, anche nel senso delle minacce e delle ricompense, distribuite tra i vari gruppi e interessi sociali, sebbene sempre favorendo i più forti? Per questo, anche i più forti socialmente, economicamente hanno sempre visto la politica come il mezzo privilegiato per imporre le loro ragioni, con meno lacerazioni e rischi possibili. Non a caso la maggioranza del Partito Repubblicano, in testa le famiglie storiche più note, quale i Bush, è stata contro Trump e non lo ha votato. Solo un altro regista – dai contenuti cinematografici tutt’altro che di destra – si è schierato subito e apertamente con lui: Clint Eastwood.

Lo sviluppo dell’Occidente sta toccando uno degli apici storici della sua tendenza originaria verso la Tecnica, quale suprema possibilità di manipolare, assoggettare, dominare il mondo ai propri fini. La Rust Belt, la cintura della ruggine degli stati centrali ex industriali che hanno votato a tappeto per Trump è conseguenza dello sviluppo tecno-elettronico che corre attorno a tutto il pianeta, che ha ridotto e continuerà a ridurre i posti di lavoro, robotizzando le tradizionali mansioni, tagliando fuori milioni di giovani acculturati, diplomati, laureati o schiacciandoli a condizioni d’impiego con salari, normative e prospettive esistenziali di merda. È vero che negli Usa la disoccupazione è al 5%, ossia inesistente se paragonata a quella europea o di altre zone del mondo. Il dato quantitativo statistico non entra però nel merito del peso qualitativo di tale occupazione. Secondo il Report dello scorso 2015 “TECHNOLOGY AT WORK. The Future Innovation and Employement” della Oxford Martin School e Citi GPS, a cura dei proff. Frey e Osborne, il 47% dei lavoratori americani è destinato a essere sostituito dai processi di digitalizzazione.

La più vasta e alta concentrazione di capitali oggi è nelle mani di aziende dell’immateriale elettronico, come Facebook, WhatsApp, Instagram, Google, solo per citare le più note. La cosiddetta Silicon Valley ha avuto nel 2014 una capitalizzazione di 1,09 trilioni di dollari, con un’occupazione totale di circa 137.000 addetti. In una delle città dell’attuale cintura rugginosa, Detroit, capitale dell’auto, nel 1990, nelle tre maggiori aziende locali, lavorava 1,2 milioni di persone, con una capitalizzazione di appena 36 milioni di dollari. Trilioni conto milioni di dollari, centomila contro un milione di lavoratori: questa la drammatica, spietata proporzione.

L’elevata concentrazione finanziaria, inoltre, viaggia attraverso a tutto attorno al pianeta con pochi click e in pochi secondi, proprio grazie alla formidabile, impalpabile potenza connettiva in vertiginosa accelerazione sviluppata da queste aziende. Potenza tecno-scientifica che travalica quella politica degli apparati di Stato, condizionandola, anzi, assoggettandola alle proprie necessità di ulteriore espansione. Uno dei precipui rami disciplinari della vecchia scienza economica era proprio l’economia politica, ossia i metodi e gli strumenti migliori per governare politicamente, attraverso lo Stato, domanda, offerta, investimenti, salari, occupazione, andamenti finanziari e monetari, gli scambi internazionali, le crisi cicliche. Ora la crisi da stagnazione permanente dell’economia cosiddetta reale – che anche quella immateriale ha contribuito a determinare – spinge siffatti capitali a cercare i necessari profitti solo negli strumenti meramente tecno-finanziari, sfruttando proprio i debiti sovrani degli Stati.

È di questa tappa dello sviluppo storico occidentale che tutto il vecchio paradigma politico, intellettuale, filosofico, economico e persino scientifico non ha oggi ancora coscienza. Non si può pensare di essere garanti statali di questi poteri finanziari sovra statali, transnazionali, globali, e far credere di poterli governare, quando in realtà se ne è esecutori. Così Hilary Clinton è stata percepita. Per questo non ha mai scaldato i cuori neanche dei suoi elettori.

Donald Trump non ha fatto altro che soffiare a polmoni gonfi sulla brace di tale scontento, accendendo le pulsioni più viscerali in senso antiprogressista, razzista, isolazionista, contro i diritti civili, delle donne, delle minoranze. Il suo non è stato quello che una volta si chiamava programma politico ma un bombardamento mediatico al Napalm di rodomontiche spacconate, insulti, minacce, abracadabra, promesse, incantesimi da più occupati e meno tasse per tutti. A lui e a suoi elettori non gliene poteva fregare di meno del – programma politico. Mettendosi fuori persino del suo partito e dei suoi tradizionali meccanismi di selezione, è apparso anche fuori del vecchio potere uscente sottomesso ora a quello entrante.

Che Trump abbia saputo cogliere i frutti saturi di rancore, non significa che lui abbia una qualche nitida coscienza del sopraggiungere in atto dell’era tecnica. Non dimentichiamoci, però, che il primo segnale tossico era partito proprio dall’Italia, con il primo imprenditore miliardario che ha scalato e rapidamente conquistato il decadente Palazzo della politica. Quanto poco, anzi niente, Berlusconi abbia realmente capito ciò che la storia gli stava facendo vivere come protagonista, lo dimostra il suo totale fallimento, pur avendo avuto a disposizione maggioranze parlamentari, mediatiche, di consenso popolare fino allora sconosciute alle patrie sponde in democrazia.

Michael Moore sta cercando in questi giorni di creare un movimento che si opponga subito a Trump e cerchi di metterlo sotto accusa, fino a ottenerne l’impeachment per via legale, indagando, ad esempio, sul ruolo svolto dal capo dell’FBI (repubblicano) alla vigilia del voto. Certo, il 45º presidente americano, obbliga a forti contrappesi e contropoteri nella società e nelle istituzioni. L’unico autentico contrappeso è però il pensare ai possibili futuri termini costituzionali della sopraggiungente tecno-era.

di Riccardo Tavani