Cacciari e la fatica dello spirito

Massimo Cacciari è ormai una pop-star filosofica della TV. Non solo il suo eloquio sempre fervente, ma anche i suoi bruschi salti di pazienza tra la folta barba e capelli sono divenuti proverbiali. Dietro le sue irruenti parole c’è però una vasta e fitta sapienza teorica che lui riesce a filtrare in un linguaggio comprensibile nel polemos, nella lotta mass mediatica contemporanea. Pur spaziando le sue numerose opere filosofiche e insegnamenti accademici dalla teologia alla filosofia dell’arte, fin da giovane non ha mai rinunciato all’agone politico diretto. È stato parlamentare, eurodeputato ma – soprattutto – per due volte e per diversi anni sindaco di Venezia.

Tale determinazione politica emerge con chiarezza in suo recente libro, Il lavoro dello spirito, per l’editore  Adelphi. È un saggio di scarse cento pagine, ma non per questo agevolissimo, soprattutto nella prima parte. Cacciari espone in essa il solido ma anche specialistico fondamento di intrecci e rimandi filosofici su cui basa la sua lettura dell’opera di Max Weber. Filosofo, storico, economista Weber è stato il fondatore della moderna sociologia. Tra il 1917 e il 1919 tenne due importanti conferenze all’Università di Monaco, raccolte poi sotto l’unico titolo Il lavoro intellettuale come professione (Die geistige Arbeit als Beruf). Le due distinte conferenze recavano i titoli: La scienza come professione (Wissenschaft als Beruf), e La politica come professione (Politik als Beruf). Dobbiamo sempre riferirci ai titoli originali per due importanti notazioni. Primo: l’aggettivo geis-tige, riferito ad Arbeit, lavoro, è formato da Geist, spirito. Spirito, infatti, ha un’accezione e connota una comprensione più ampia della realtà a intellettuale. Beruf, poi, significa sia professione, sia vocazione, e anche qui c’è un elemento più intimamente spirituale.

Lo sforzo di chiarezza che Cacciari compie è innanzitutto quello di distinguere la novità del pensiero critico weberiano dalla tradizione dello spirito grande borghese, che da Goethe arriva fino a Thomas Mann. Weber – facendo propria la lezione di Nietzsche – capisce che quell’epoca è irrevocabilmente tramontata. La razionalizzazione, ossia l’espressione dello spirito nell’era della Tecnica, non può più basarsi su alcuna certezza. Anzi, il disincanto, l’incertezza sono la dimensione strutturale del reale-razionale nella contemporaneità. La razionalizzazione è alla base di un processualo tecnico-produttiva che tende ad agire guardando solo alle proprie esigenze intrinseche, indifferente alla complessità sociale. Come può allora la categoria del Politico rapportarsi a tale spinta alla razionalizzazione tecnica? Razionalizzandosi alla stessa stregua anche essa? Sì, ma come, se non si dà più alcun fondamento di certezza? Nella lettura di Cacciari, è proprio questa l’altezza e l’attualità della sfida posta da Weber. Tecno-scienza e politica si fondano entrambe su una razionalità, su un lavoro dello spirito, ma perseguono scopi diversi, spesso conflittuali tra loro. La situazione è resa ancora più complessa da quella che Weber ha chiamato la ‘gabbia d’acciaio’ del capitalismo. Il capitalismo è quel capillare processo di produzione economico-scientifico-tecnologico che è insieme anche sociale. Esso non può fare a meno di rendere l’intera società, in ogni suo aspetto, funzionale ai propri scopi. L’arte, la cultura, il divertimento, tutto deve essere reso sua funzione. Anche la politica, lo Stato. Questo aspetto disperò gli ultimi anni di Weber, fino alla sua scomparsa nel 1920.

Per Cacciari, però, la lezione weberiana deve essere ripresa e riattualizzata, proprio nella capacità del Politico di conoscere, essere altamente competente della razionalità tecno-scientifica-economico-produttiva, ma nello stesso tempo di rendersi fortemente e anche conflittualmente autonomo da essa, per ricondurla dentro un quadro di continua democratizzazione della società. Le due razionalità devono perennemente ricercare, ritrovare tratti di reciproca giustificazione. Questo è il compito precipuo che deve perseguire il lavoro dello spirito. C’è un aspetto, però, sul quale nel presente appare sempre più arduo, se non addirittura impossibile tale sforzo di divergente convergenza. La circostanza che la ‘gabbia d’acciaio’ capitalistica sta mettendo a rischio la stessa sopravvivenza del pianeta. È un destino, ossia una necessità, un essere condannato a non-cessare, a non smettere di farlo. Il capitale è l’autentico disincantato araldo di questa sua religione. E forse la disperazione finale di Weber era l’aver compreso che anche quello intellettuale, più che come lavoro, il capitale lo sussume a sé come vera e propria fatica dello spirito.

di Riccardo Tavani

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