Il cimitero dei feti abortiti
La storia del cimitero dei feti, è una storia che dura da tanto, circa vent’anni tra denunce di donne inascoltate dalla politica e diventa difficile ora ripercorrerla dall’inizio. Viene alla ribalta solo adesso grazie ad un post diventato virale sui social. Marta Loi, dopo aver affrontato un aborto terapeutico, ha trovato il suo nome affisso su una croce, in un campo del cimitero Flaminio di Roma. Lo ha fotografato, lo ha pubblicato, ha raccontato la sua rabbia e la sua angoscia nel leggere di “prodotti del concepimento”, “feti”, settimane di gestazione, nello scoprire la sua storia, il suo lutto, la sua vicenda privata associata al simbolo di una religione in cui non si riconosce e in cui non crede. Ha permesso a tutti di vedere il campo coperto di croci contrassegnate da nomi e cognomi di donne, spesso straniere, gran parte all’oscuro di questa pratica, di questa macabra distesa: la maggior parte delle sepolture, per uno di quegli sgambetti della burocrazia che ora si vorrebbe far apparire come uno sfortunato incidente, ma che incidente non è affatto, avvengono all’insaputa delle donne.
Ed è questa la parte più difficile da raccontare, una prassi consolidata di cui le donne stesse sono ignare. Una violenza che ora grida giustizia, perché a seguito di questa denuncia, altre donne hanno raccontato le loro storie confermando quella di Marta. Così l’associazione Differenza donna ha deciso di avviare una class action, il garante della privacy ha aperto un’istruttoria e la capogruppo della lista Zingaretti alla Regione Lazio, Marta Bonafoni ha firmato un’interrogazione per risalire ai vari passaggi che hanno portato a questa stortura.
Occorre infatti capire come dalla possibilità, da sempre garantita a tutti, di dare sepoltura ai bambini nati morti, si è passati a una sorta di obbligo di sepoltura dei feti abortiti.
E ci si perde così fra vuoti normativi, volontarietà, possibilità, firme di moduli, affissioni di annunci in bacheca, omertà di ospedali, Asl, Ama, servizi cimiteriali, fino ad arrivare alla distinzione in settimane gestazionali nei documenti di bioetica stilati da luminari di università cattoliche su richiesta di associazioni pro-life, utili a mostrare dove andare a forzare. Perché i vari movimenti per la vita ci lavorano da un pezzo. Nell’ombra. Nelle zone grigie della legge e dei regolamenti di polizia mortuaria. Giocando sul fatto che le donne che abortiscono volontariamente, una volta risolto quello che in Italia viene reso a tutto gli effetti un problema, non vogliono pensarci più e che quelle che invece hanno vissuto il dramma di una gravidanza voluta ma impossibile da portare a compimento, cerchino poi di superare il trauma senza dover partecipare, pure, a una contesa sui “resti”. Contando anche sul fatto che si tratta, spesso, di donne straniere.
E come chiamare tutto questo se non una “violenza istituzionale”?
Forti della loro tradizione millenaria in tema di lutto e del loro monopolio sui riti della fine, le varie associazioni di ultrà cattolici occupano territori, piazzano bandierine (croci, in questo caso), stringono alleanze con aziende sanitarie e amministrazioni regionali o comunali da anni. Vent’anni.
I soggetti sono sempre gli stessi: varie associazioni in difesa della famiglia, i cui nomi sono ampiamente conosciuti dalle autorità competenti. Gli stessi soggetti che erano presenti al congresso mondiale delle famiglie a Verona nell’aprile del 2019, occasione in cui si regalavano portachiavi a forma di feto e si tentava l’assalto ai diritti delle donne e delle persone lgbt.
Una strategia subdola che ha fatto leva sull’elaborazione del lutto per gravidanze non portate a compimento, il desiderio di alcune donne di avere un luogo per ricordare bambini nati morti, la gestione delle pratiche… così queste associazioni che usano parole come beneficenza, in realtà non si stanno prendendo carico dei problemi altrui bensì se ne stanno appropriando per le loro battaglie ideologiche.
Non potendo attaccare frontalmente la legge 194 (sanno che sarebbe una battaglia persa), allora la aggirano, la svuotano con l’obiezione di coscienza, spazio ottenuto all’epoca come concessione perché il provvedimento passasse, ma aumentato a dismisura, tanto che proprio gli aborti terapeutici sono diventati i più difficili.
Troppi i medici obiettori di coscienza e troppe, per questo, le esperienze da incubo delle donne (l’ultima è quella raccontata all’Espresso da una donna di Roma, lasciata sola, senza informazioni, senza epidurale, senza assistenza continua perché i medici non obiettori sono pochissimi, a fronteggiare anche una “specialista” neocatecumenale che la invitava a prendere in considerazione l’idea di far nascere una bambina con gravi malformazioni cardiache e un’aspettativa di vita di tre anni tra sofferenze indicibili).
A tutto ciò si è aggiunta questa violenza istituzionale dei nomi sulle croci.
Grazie a Marta Loi, che ha sollevato questo problema postando una foto che rappresenta e sintetizza tutta la stratificazione di violenze vissute dalle donne in questo paese, la parte terminale di un percorso a ostacoli in cui devono districarsi da sole finché la politica continuerà a essere assente, in ritardo, o semplicemente complice.
di Stefania Lastoria