Le donne che resistono a Kabul

Mi chiamo Bibi Gulalai Mohammadi, sono membro del Parlamento e la più giovane deputata di tutto l’Afghanistan”. La donna si presenta accompagnata da una parente all’appuntamento da lei stessa voluto con alcuni giornalisti stranieri. Si leva il burqa e mostra il suo volto. Dice: “Non ho nulla da nascondere”. Il coraggio di Bibi gela gli animi tanto quanto la sua sconcertante rivelazione. Ha 27 anni e rappresenta a Kabul l’Uruzgan, una delle province più povere del Paese, quella in cui è nato il mullah Omar. E’ cresciuta a Kandahar, la culla dei talebani, dove si è laureata in legge e ha iniziato il master in Business, ha lavorato in ospedale e presso l’aeroporto della città del Sud. E’ stata eletta a 25 anni come candidato indipendente, la piùgiovane donna a mettere piede in Parlamento dove è stata nominata segretaria della commissione Affari internazionali.

Un esempio per le afghane fin troppo potente per una donna di etnia Pashtun, cresciuta in un ambiente a conduzione tribale, per di più figlia di mullah e nipote di mullah.

“I miei stessi parenti dicevano ai miei genitori che era un disonore avere una figlia così, che avrei dovuto stare a casa, senza uscire o lavorare, tanto meno andare in Parlamento”. Suggerimenti che non scalfiscono la caparbietà di Bibi e nemmeno del padre, <<mullh illuminato>>, come lei stessa lo definisce, che le ha sempre detto di seguire sogni e progetti sino a quando alcuni anni fa è venuto a mancare. I suggerimenti sono quindi diventati nel tempo avvertimenti, minacce, azioni punitive.

“Mio fratello aveva 21 anni, si era appena sposato e aveva un bambino, lavorava con me, era il mio segretario. Ad un certo punto ha deciso di andarsene, era venuto a Kandahar per ritirare il visto ed è stato vittima di un’esecuzione da parte di due sicari in moto, probabilmente emissari della stessa tribù, era gennaio scorso, prima del ritorno dei talebani a Kabul. Mio fratello nacque con la fine del primo Emirato ed è stato ucciso alla vigilia di quello nuovo, ammazzato per colpa mia, perché io continuavo a svolgere il mio ruolo di donna attiva, ero membro del Parlamento e lavoravo per i diritti delle donne”.

Una sentenza di condanna annunciata, secondo le spietate regole mutuate dalla sharia, la stessa interpretazione dura del Corano che dopo qualche mese è tornata ad oscurare l’Afghanistan.

“Sono stata costretta a lasciare gli studi e la vita politica, sono prigioniera di un pezzo di stoffa che mi lega come una camicia di forza. Che senso ha tutto questo? Stiamo perdendo venti anni di conquiste. Ho pensato di andarmene per avere un futuro ma poi mi sono convinta che non sarebbe stata la stessa cosa, che rimanere avrebbe dato un contributo assai più forte alla lotta per i diritti delle donne. Se tutti fuggono, chi penserà a questo Paese?”

La fermezza di Bibi Gulalai Mohammadi fa sprofondare nella disperazione la mamma che già ha perso un figlio e si chiede che ne sarà di suo nipote, una madre che esorta la figlia a partire, ad andare via per salvasi. Ma Bibi rimane anche per lei, per i suoi fratelli, per le sue sorelle più piccole. Non vuole lasciarli ma se necessario morire per loro, morire per la libertà del suo popolo.
“Credo nel fondamentale sostegno della comunità internazionale nell’esercitare pressioni sul governo dei talebani, così come nell’interesse di tutti i Paesi amici dell’Europa e in particolare del governo italiano che ringrazio molto per il suo impegno per l’Afghanistan. E chiedo all’Italia che il suo sostegno per il nostro Paese continui, specie per quel che riguarda le donne”.

Quando le viene chiesto se ha paura, lei risponde: “Perché dovrei averne, questa è la mia nazione, non sto facendo nulla di sbagliato”.

Eppure sa come tutti che gli apostoli della sharia le sentenze le scrivono con spietata facilità. BibiGulalai Mohammadi è consapevole che ovviamente un giorno verrà uccisa, ma fino a quando vivrà combatterà per i suoi e per i diritti di tutti.

di Stefania Lastoria

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