Quando l’inchiostro scorre all’indietro

Mirabile per concisione, specularità narrativa il romanzo di Patrick Modiano Inchiostro simpatico, edito in Italia da Einaudi. Un giovane aspirante scrittore va a lavorare da Hutte, una piccola agenzia investigativa privata. Pensa così di entrare in contatto con casi, situazione di vita particolari, che possono ispirare la sua scrittura. Il capo gli affida il caso di una ragazza, Noëlle Lefebvre, i dati della cui scomparsa sono contenuti in un paio di striminziti foglietti custoditi dentro una cartella azzurrognola. Affida la ricerca a quel novizio perché è convinto che sia una ricerca che non ricopre nessuna importanza. Al giovane è lasciata totale carta bianca, proprio come la pagina intonsa e paralizzante di un racconto ancora tutto da iniziare a scrivere.

Così, dopo aver raccolto un altro mucchietto di confuse informazioni sulla ragazza e su un paio di personaggi che ruotano intorno alla sua scomparsa, incapace di dare loro un senso, un ordine, una parvenza di forma logica su cui cominciare a imbastire ipotesi, il ragazzo rinuncia all’impresa, licenziandosi dall’agenzia. Si porta però via la cartella azzurrognola. Come ricordo. Tanto al capo non gliene frega dichiaratamente niente di quel caso.

Passano gli anni: quanti? Tanti, ma in tranche di periodi temporali successivi, in cui ricade nella cartellina azzurra come fosse in trance, e non può fare a meno, ossia qualcosa dentro gli intima di riprendere la ricerca, diradare il mistero, sciogliere l’enigma. È lui, però, che – inedito, inaudito, paradossale Marcel Proust – è alla ricerca del personaggio perduto, o è questi che sta cercando lui perennemente perduto al tempo e a sé stesso? La cartellina si popola di nuovi frammenti, detriti, fotogrammi con altri ectoplasmatici personaggi storditi dal passato. Ed è come se tra le poche righe scritte sugli sparuti foglietti iniziali, ne emergessero altre, prima invisibili, perché vergate in inchiostro simpatico Così, di capogiro in capogiro temporale – proprio come in un improvviso accapo alla Flaubert, in cui è trascorso un ammasso d’anni rispetto al paragrafo immediatamente precedente –, la scena si sposta a Roma.

In una galleria d’arte, che sta esponendo una mostra di foto. Quelle alle pareti, però, sono solo una piccola parte di quelle accumulate in un locale retrostante, chiamato deposito. È una metafora dell’immane retrobottega della nostra memoria. In esso è tutto depositato alla rinfusa, strato su strato. Immagini mentali di persone, situazioni, fatti, oggetti, parole, pensieri, sommerse da altre, ossia nascoste dall’oblio, invisibili, scomparse all’attualità della coscienza. Scomparse ma non morte: anzi pronte, frementi di riaffiorare, riapparire dall’assenza di ciò che chiamiamo passato, alla presenza proprio di ciò nominiamo presente. Tornare improvvisamente al presente, essere incontrovertibilmente il presente. Come il nome Noëlle suggerisce scoprirsi il Natale d’ogni singolo, semplice quotidiano scandire e attimo infinito dell’esistenza.

Basta vedere un volto di profilo, anziché di fronte, come quando si stava seduti vicini in treno; o rimanere colpiti dal modo di camminare di una a come nella novella di Wilhelm Jensen Gradiva, del 1903, non a caso da Freud analizzata, nella forma di un importante saggio teorico. Contrariamente a quella celebre canzone francese Que reste-t-il des nos amours, la “vecchia foto della mia giovinezza”, non solo resta lì, ma torna qui.

di Riccardo Tavani

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