Cine-pillole di primavera in guerra
Licorice Pizza. Frizzante genere teen-ager anni ’70 in California. Non ancora sedicenne, Gary tenta di rimorchiare fin dalla prima scena Alana, venticinquenne. Lui è in un musical giovanile con molte altre ragazze e ragazzi, per questo si vanta con lei di essere un ‘attore’. Lei, terza figlia di famiglia ebraica scatta foto per tessere scolastiche. Accetta l’invito di andare a cena con lui, ma non si piantasse in testa che stanno insieme. Lui poi si mette a vendere materassi ad acqua e lei lo segue, lo aiuta nell’impresa, sempre – non stando insieme a lui. Alti e bassi da commedia sentimental-generazionale si sviluppano. Pregiata qualità cinematografica del regista-autore, e sorprendente capacità recitativa dei due protagonisti esordienti. Il film vuole attirare sia quelli che erano giovani cinquant’anni fa, sia quelli che lo sono ora. Il significato del titolo non si trova in nessuna sua scena, perciò non facciamo nessuno spoiler a spiegarlo. I dischi, i long play a 33 giri hanno più o meno la dimensione di una pizza tonda, ed il loro vinile è nero lucente come liquirizia. Fu aperto in quegli anni un negozio con il nome Licorice Pizza, il quale ebbe un grande successo, tanto che se ne aprirono altri trentotto attorno a Los Angeles. Paul Thomas Anderson aveva già un titolo a film finito: Soggy Bottom, Materasso umido, ma la distribuzione lo ha convinto che non funzionava. Così è ricorso a titolo attuale, perché il film è un collage delle vicende esistenziali dei suoi amici che in quegli anni giravano attorno al negozio di dischi. Conseguente la colonna sonora: da July Tree, di Nina Simone, a But You’re Mine, di Sonny & Chair, che da noi cantava Patty Pravo, su testo di Gianni Boncompagni, con il titolo di Ragazzo Triste.
The Batman. Tre ore di grande cinema. Un Batman e una Gotham City così sono un inedito e anche un inaudito assoluto. Tanto che la vera protagonista del film, ancora prima dell’eroe, è proprio la sua città. Un ambientazione dark, sempre sotto la pioggia, opaca, tentacolare, appiccicosa di potere, delirio e corruzione. Il Pipistrello si trova a tentare di risolvere i rompicapo criminali dell’inafferrabile Enigmista, il quale proclama di voler estirpare anche lui le radici marce della città, ma punendo direttamente – e soprattutto atrocemente – i colpevoli. Il nostro eroe incontra – per la prima volta – sulla sua strada un’altra eroina, l’affascinante Catwoman, la quale, però, è assetata solo di vendetta per la fine che hanno fatto fare alla sua migliore amica. La sfida lanciatagli dall’avversario è oltre le sue forze, perché Batman l’attacco se lo sente penetrare fin dentro la sua più opaca intimità.
Belfast. Ottime le intenzioni, non del tutto gli esiti. Protagonista Buddy, un ragazzino di otto anni che vive in un quartiere di cattolici e protestanti nella Belfast del 1969. È il periodo dei troubels, dei tumulti tra le due comunità. Il ragazzino è l’alter ego del regista Kennet Branagh, nato proprio in quel quartiere. La scelta del bianco e nero fa del film non solo una dichiarazione d’amore dell’autore per la sua città d’origine, ma un atto del presente vivo che – attraverso la forma d’arte del cinema – ci mostra tattilmente che c’è un filo d’oro di Arianna, baluginante dentro di noi a ogni età, in grado di guidarci nel caos anche più labirinticamente aggrovigliato e disperante del mondo. La resa cinematografica, però, non è all’altezza, o meglio alla profondità di ciò cui vuole attingere, rimanendo per lo più in superficie. Candidato a 7 Oscar.
Il male non esiste. Immagini e narrazione al nocciolo dell’essenzialità della pena di morte. Quattro storie di tre giovani carcerieri e un medico iraniani che si trovano faccia a faccia con l’obbligo, imposto dallo Stato, di accompagnare un prigioniero alla esecuzione capitale, o di eseguirla, ma anche con il dovere interiore di sottrarvisi. Il regista Mohammad Rausoulof, condannato per una testimonianza estorta, quale “propagandista contro il governo islamico”, mette in scena il tema della costrizione che ha sperimentato su sé stesso. Due scene di esplicito omaggio alla storia del cinema. La prima a La ballata del boia, titolo originale El Verdugo, 1963, dello spagnolo Luis García Berlanga, con la sceneggiatura di Ennio Flaiano e una magistrale interpretazione di Nino Manfredi. La seconda citazione è a diversi film di Abbas Kiarostami, nei quali il protagonista guida per lunghe e tortuose strade sterrate interne iraniane. Un omaggio anche alla canzone Bella Ciao, ma nella versione cantata da Milva che ha un testo meno noto.
Il ritratto del Duca. Commedia sulla caparbietà sociale. È la ricostruzione della vera storia di Kempton Bunton, uno spiantato pensionato combina-guai, disperazione della moglie e di suo figlio. Rapisce, più che rubare, un quadro di Goya alla National Gallery di Londra, chiedendo un riscatto a sfondo sociale: canone televisivo gratuito per tutti i pensionati. L’impianto è esile, ma si avvale della godibile interpretazione di Helen Mirren e Jim Broadbent.
Luigi Proietti detto Gigi. Per sentirlo ancora vicino. Edoardo Leo, attore e regista di successo della commedia italiana, è stato uno degli ultimi allievi del nostro grande mattatore di teatro, tv e cinema. Ha lavorato quattro anni alla ricerca e allo studio dei materiali, prima di riuscire dargli un ordine narrativo ed emotivo. La mamma di Gigi, quando il figlio le domandava se un suo spettacolo le era piaciuto, rispondeva: “Abbastanza”. Così anche Leo si accontenterebbe che questa sua ricostruzione piacesse al pubblico – abbastanza. Gli spettatori, però, hanno doppiato – e in grande stile – il Capo dell’Abbastanza, tributando al film il meritato riconoscimento. Impossibile riassumere in poche righe i momenti clou riportati sullo schermo dall’autore, perché essi galoppano di carica lungo tutto il racconto. Dialogando con Edoardo Leo al cinema Farnese di Roma, mi sono soffermato con lui sulle cene dopo spettacolo di Gigi con la sua compagnia teatrale. Essendo già presente dentro la parola s-cene, anche quella di cene, quest’ultime erano davvero per Gigi – a là Von Clausewitz – la prosecuzione delle scene con altri mezzi.
Cyrano. Riuscita riproposizione di un classico cine-teatrale. Girato tra le più suggestive scenografie urbane e naturali di Noto, Siracusa, Scicli e le sommità lividamente innevate dell’Etna, la deformità di Cyrano de Bergerac – tradizionalmente attribuita alla lunghezza del suo naso – è ora rovesciata nella sua bassezza da nano, cui dà il suo corpo, il suo volto e la sua voce vertiginosamente profonda Peter Dinklage. Nei panni di Roxanne, invece, il delicatissimo ma tenace candore di Haley Bennet. In quello di Cristiano, l’incapace di poesia, ma baciato dall’amore, è l’attore afroamericano Kelvin Harrison Jr. Il film conserva – in parte – anche la forma del musical teatrale di Erica Schimdt da cui è tratto. Alcuni brani, cantati da Dinklage, ci trasmettono davvero il dolore spietato dell’eroe per quella sua irrimediabile deformità che gli nega l’amore della sua dea Roxanne.
Radiografia di una famiglia. Nella forma di un documentario i tratti di un capolavoro cinematografico innovativo fuori di ogni schema e genere. La regista iraniana, Firouzeh Khosrovani, racconta la storia della sua famiglia che s’incastona drammaticamente in quella dell’intero Paese. Il titolo si riferisce anche al fatto che il padre si fosse laureato in medicina e conseguito la specializzazione in radiologia a Ginevra. Lo fa senza attori di nessun tipo, solo con un filo di testo narrativo, un mucchietto di foto di casa e immagini di repertorio riguardanti i diversi periodi trascorsi in Svizzera, altre località europee e Iran. Ossia le vere attrici protagoniste del film sono le immagini, quale elemento eminentemente specifico dell’arte cinematografica. E che questo sia un film d’arte lo si avverte immediatamente, fin dalle prime inquadrature, carrelli e panoramiche del salone interno la casa di Teheran. Sono opere come queste che squarciano la visione di inedite possibilità e inesplorate vie verso altre aurore cinematografiche.
di Riccardo Tavani