Le donne, gli esclusi, gli ultimi possono salvare la civiltà

Ci sono tante storie che possiamo raccontare su ciò che accade nella società in cui viviamo, su pregiudizi che stentano a morire e anzi, grazie ai social media, vengono amplificati, esaltati, enfatizzati, quasi glorificati.

In alcune delle recenti storie che andremo a raccontare, come sempre più spesso accade, le vittime di tali aggressioni mediatiche, sono donne.

Una preside di liceo è stata in prima pagina per oltre una settimana per aver avuto delle presunte condotte “improprie” con uno studente peraltro maggiorenne. Ora, analizziamo bene come questa notizia é stata resa pubblica. Di lei non si è fatto il nome e cognome, non è stato scritto il suo indirizzo men che mai il suo numero di telefono. Si direbbe giustamente che la privacy sia stata rispettata se non fosse che, subdolamente, è stato nominato il liceo che dirigeva e la sua foto (ripeto la sua foto) ha campeggiato per giorni su tutti i più diffusi giornali italiani. C’è stata un’indagine da parte delle autorità scolastiche che non ha prodotto nulla di significativo. Eppure la foto di una persona è stata tolta, sottratta, sfilata dalla sua vita privata, per restare per sempre nell’immaginario collettivo.

Negli stessi giorni un comico, ospite di show televisivi, ha diffuso su Twitter una battuta sulla morte di una giovane pornostar, uccisa in modo atroce, disumano, raccapricciante, fatta a pezzi da un uomo che tutti i suoi conoscenti e vicini di casa consideravano “normale”. La battuta non si può ripetere, è intollerante, un vilipendio della dignità umana. Eppure intervistato l’autore del vilipendio si è dichiarato convinto di ciò che aveva detto. Con il senno di poi forse avrebbe riscritto la battuta magari in modo più fine, accettabile, con un lessico meno forte.

In entrambi i casi la vittima dell’aggressione è la donna in sé.

La donna in quanto donna. Punto.

Ora, le motivazioni psichiche dell’offesa sono fin troppo complesse e contraddittorie.

Un ruolo significativo è il doppio ambiguo investimento della “donna di facili costumi”: da una parte la paura della libertà sessuale femminile che diventa disprezzo difensivo; dall’altra, l’idealizzazione segreta della “santa prostituta”, la donna virginale che è di tutti e di nessuno. La donna è attaccata nella sua realtà erotica e adorata come idealità astratta e scarnificata. L’idealizzazione non ferma la forza distruttiva: per un aspetto è essa stessa distruzione della donna viva, per un altro frustrando il desiderio dell’uomo aumenta la sua rabbia.

Nel mettere la donna sul piedistallo, l’uomo la svuota anche, la imprigiona in un guscio di morte e la punisce. La divisione tra donna reale e donna ideale è da sempre un circuito vizioso che reprime la soddisfazione sessuale di entrambi i sessi.

Se ci si pensa bene, alla base di tutto c’è l’esclusione della libera espressione della sessualità femminile.

Esclusione che è alla base delle ripetute estromissioni con cui procede il processo della civilizzazione: ciò che include nel suo sviluppo trasformativo, resta sempre minoritario rispetto a ciò che esclude per il suo stesso modo di centrarsi su di sé in modo conservativo. Così di tanto in tanto implode.

Pochi giorni fa, in un sua intervista, l’ex calciatore francese Lilian Thuram, uno dei difensori più eleganti e forti degli ultimi decenni, impegnato nella lotta contro il razzismo, ha dichiarato: “Il pensiero bianco fa parte della normalità. Che essere bianchi sia meglio è un dato di fatto: facilita la vita, è un sistema di valori dominanti che si trova alla base della cultura occidentale. Lo sappiamo tutti ma pochi sono pronti ad ammetterlo”.

Thuram riassume in poche parole la storia e la rigidità della nostra civiltà che quando include esige l’adattamento alla sua logica e alle sue nascoste coordinate. Include gli esclusi che possono darle forza e vitalità, ma, il più delle volte, non accetta di essere, con il loro ingresso, rivoluzionata e ridefinita.

Tutti lo sappiamo, siamo spettatori di un mondo che vede nell’ingiustizia, nel disprezzo e nell’emarginazione qualcosa di “normale”.

Ed è per questo che proprio le donne, gli esseri umani “di colore”, i cosiddetti “disadattati” di ogni tipo, gli oppressi sono invece una risorsa che può salvare la civiltà. Loro che hanno subito e continuano a subire angherie e sofferenze possono e devono diventare la fonte di un radicale ripensamento di questo mondo malato, di questa “civiltà” così poco civile.

di Stefania Lastoria