“Io sotto il burqa trattenuta dai talebani, (uomini che non conoscono le donne)”

Questo è il racconto di una giornalista, Lucia Capuzzi, inviata a Kabul. Più che altro è la cronaca di un incontro, avvenuto a causa di un “equivoco” sui permessi e andato avanti per oltre nove ore. Un tempo che ha concesso alla donna di osservare molto bene, con solerzia di particolari, seppure sotto la rete cerulea di un burqa, i talebani. Ex fantasmi celati per due decenni dalle gole pietrose dell’Afghanistan e riapparsi un anno fa, a cancellare diritti acquisiti e dignità delle donne.

Gerarchia, regole interne e intenzioni politiche degli esponenti della formazione sono centellinate ed elargite in frammenti di verità tanto minuti da rendere difficile, impossibile ricostruire un mosaico leggibile.

Nulla ad esempio si sa delle abitudini di vita dei talebani al di fuori dei rituali di ordinanza.

Ecco perché l’esperienza della giornalista “sequestrata” per nove ore diventa un sguardo importante, che osserva, elabora e ci restituisce una fotografia nitida ed interessante di quel mondo. Il loro mondo.

Nell’enorme stanza del palazzo del governatore di Lashkar Gah, nel sudovest del Paese, ci sono nove uomini. I più anziani – di età e di servizio – siedono sui divani di pelle nera. Gli altri, i giovani, si distribuiscono sui tappeti, con le gambe incrociate, secondo la tradizione afghana. Si dispongono dallo stesso lato: un tavolo – elegante e nuovo come il resto del mobilio – li separa dall’entità avvolta nel burqa azzurro. Nessuno di loro indossa l’uniforme militare: niente mostrine, niente nomi, niente presentazioni. Tutti, invece, sfoggiano la ‘divisa’ taleban, mutuata dalla tradizione pashtun: tunica e pantaloni candidi e turbante nero da cui molti fanno spuntare una massa corvina lunga fino alle spalle. Il dettaglio sorprende perché nell’Afghanistan dell’Emirato – così si chiama il regime al potere dal 15 agosto 2021 – è proibito ai maschi portare i capelli sotto l’orecchio.

Ovviamente ognuno tiene  ben in mostra il pesante Kalashnikov, mentre altri fucili sono lasciati in vista sul tappeto.

A lungo parlano, chiacchierano, scherzano come se non ci fosse nessun altro nella stanza. Senza volto, perché deve stare coperto, come le è stato ordinato, la donna smette di esistere.

I talebani, scrive il loro più profondo conoscitore, il giornalista pachistano Ahmed Rashid, sono ciò che le innumerevoli guerre in atto da 43 anni hanno rigettato, relitti depositati dal mare sulla spiaggia della storia.

Orfani di padri, uccisi in una sequela senza fine di combattimenti, e soprattutto di madri. Le hanno perse nei raid degli occidentali o, il più delle volte, per farli sopravvivere, queste ultime, rimaste vedove e senza mezzi, hanno dovuto affidarli alla madrassa, lontano da sorelle, zie e cugine. Uomini cresciuti senza donne, la cui presenza ora viene vissuta con un misto di minaccia e curiosità.

Le ore scorrono lente nella stanza di Lashkar Gah. I funzionari talebani continuano a scambiarsi battute fra loro. A un certo punto uno tira fuori da una scatola un nuovo paio di scarpe da ginnastica e se le prova, chiedendo un consiglio. Tra loro c’è il tipico cameratismo delle confraternite studentesche maschili.

Pian piano, quando gli altri sono distratti, uno dei funzionari anziani si avvicina al burqa per offrirle dell’acqua, sussurrando qualche frase in inglese: «Puoi rilassarti, noi garantiamo la tua sicurezza. Per questo non facciamo viaggiare le donne da sole».

L’arrivo di quello che poi si rivelerà il capo dell’intelligence di Lashkar Gah fa calare un momentaneo silenzio.

Alle 19:50 scattano in piedi. E’ il momento della preghiera, il resto può attendere. I mobili vengono spostati, le sciarpe buttate per terra, i Kalashnikov posati, finalmente.

«Tu stai seduta », viene ordinato al burqa. Poi, un talebano dai capelli bianchi canta i versi dell’orazione con tono rauco e gli altri ripetono le formule rituali. Alla conclusione, il colloquio riprende. Nelle pause infinite tra domande e traduzione, il burqa vorrebbe palesarsi con l’espressione del volto ma non può farlo. Solo alla fine, quando la conversazione si fa più cordiale, l’interprete la invita a scoprirsi la faccia perché «voi occidentali non siete abituate e magari lo trovi scomodo».

Allora l’atmosfera comincia a cambiare. Uno dopo l’altro i nove iniziano a lanciare qualche sguardo fugace ma, appena scoperti, abbassano gli occhi. Si parlano all’orecchio e ridacchiano. Uno si sente in dovere di precisare: «Non ridiamo di te, sono cose nostre». Un altro esce dalla stanza e torna con un grande vassoio d’uva. Con il Kalashnikov in una mano e nell’altra il bicchiere, offre il tè all’ex donna senza volto. «Perché non hai figli?», «Dove è Milano?», «Perché hai perso tanto tempo a studiare?», i più arditi pongono domande, gli altri ridono parlottando con il vicino. «Credi in Dio? Davvero sei cattolica? E puoi stare così?», dice, indicando la foto nel cellulare in cui la donna appare insieme a degli amici e amiche con i capelli sciolti e un abito senza maniche. La scena si protrae fino al congedo. Svuotata dell’unica presenza femminile, la stanza torna esclusivo territorio maschile. Una buona metafora dell’Afghanistan dei talebani.

Uomini che magari non odiano le donne. Semplicemente non le conoscono.

di Stefania Lastoria

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