Per combattere i femminicidi, occorre educare i maschi

In queste ultime settimane, dopo tristi, cupi e feroci giorni di commenti sui femminicidi compiuti da uomini giovani, ben inseriti nella società, cioè da coloro comunemente definiti “perbene” come il poliziotto suicidatosi dopo aver uccido l’amante e il caso più eclatante della giovane donna incinta di 7 mesi barbaramente uccisa dal suo compagno, barman di un famoso hotel di lusso, i concetti che si ripetono sono sempre gli stessi.

Si discute, ci si divide sugli approcci, sulle letture del fenomeno strutturale della violenza maschile, sul da farsi.

Ormai si sa che è sempre l’uomo che ti ama(va) quello che ti farà del male, fino ad ucciderti.

E poi, ancora: se è vero, come è vero, che il sesso che uccide nella coppia, in proporzione assolutamente maggioritaria, è quello maschile, perché ci si rivolge solo alle donne dicendo loro: di non andare all’ultimo appuntamento, di scappare al primo segnale di aggressività, di parlare con amiche, di chiamare la polizia?

Assolutamente tutte cose utili, sensate e legate all’emergenza.

Eppure, il fatto ormai acclarato e manifesto che i perpetratori sono gli uomini, che esiste il problema del comportamento e delle responsabilità in primo luogo maschile resta sullo sfondo. Si fa fatica ad invertire il punto di vista, il focus, perché c’è reticenza, omertà, opacità a concentrarsi su questo ovvero su una realtà ormai incontrovertibile, vale a dire che il problema sono gli uomini. Non tutti certo, ma molti, moltissimi.

Una decina di anni fa il formatore e attivista contro la violenza maschile Jackson T. Katz, in una conferenza rilasciò un concetto nel quale sosteneva che la violenza maschile sulle donne è un problema maschile, e che per fermarla c’è bisogno di uomini che intervengano nei gruppi di pari, dal bar alla palestra, dalle scuole alle famiglie, dai partiti ai centri sociali passando per le parrocchie e le caserme. Uomini che abbiano il coraggio di prendere parola su questo tema e diffondere dibattiti e riflessioni.

E non solo nelle aule universitarie o sui giornali, ma nella vita di ogni giorno, a partire dall’uso normalizzato della misoginia nel linguaggio, dalle ‘battute’ umilianti, dalle barzellette ambigue e volgari, sui social.

Ecco le sue parole: ”Quando si tratta di uomini e di cultura maschile, l’obiettivo è quello di indurre gli uomini che non sono misogini a sfidare gli uomini che lo sono.”

Si tratta di avere chiaro che è necessario che sempre più uomini interrompano il continuum di violenza diffusa sulle donne. Così, per esempio, se sei un ragazzo e sei in un gruppo di amici che giocano a poker, che chiacchierano, che stanno fuori insieme, senza nessuna donna presente, e uno dice qualcosa di sessista o degradante o molesto verso le donne, invece di ridere o di fingere di non aver sentito, abbiamo bisogno di uomini che dicano: “Ehi, non è divertente. Quello che hai detto potrebbe coinvolgere mia sorella, o un’altra donna che mi è cara. Non potresti scherzare su qualcos’altro? Non apprezzo questo tipo di discorsi”.

L’analisi di Katz ci porta dritto al cuore del problema: il consenso, la minimizzazione della violenza maschile sulle donne passano attraverso il silenzio e l’omertà dei comportamenti quotidiani degli uomini, atteggiamenti apparentemente inoffensivi che però entrano sotto pelle e costituiscono l’ossatura della corazza patriarcale che ingabbia e stritola corpi e menti, fino a costruire negli uomini, sin da piccoli, la convinzione che le donne siano di loro proprietà, esseri minori da manipolare, sottomettere fino ad ucciderle. Di questo discutiamo da decenni tra donne, nei convegni, negli incontri, nelle formazioni, in occasione di eventi dove però, se si tocca questo argomento, gli uomini sono sempre pochi, troppo pochi.

Non dobbiamo insegnare alle ragazze a proteggersi, dobbiamo educare i ragazzi.

Sì, il punto è questo: fino a che la violenza maschile sulle donne verrà letta, descritta, raccontata nello spazio pubblico, così come in privato, come un fatto che riguarda (solo) le donne, non sarà possibile cambiare la realtà, i cui numeri parlano di una donna uccisa in ambito relazionale ogni tre giorni in Italia.

Paradossalmente è più facile trovare solidarietà ed empatia su altre forme di violenza e ingiustizia, per esempio sulla questione migratoria, sulla violenza contro gli animali, l’ambiente, l’orientamento sessuale ma sulla primaria questione delle relazioni tra donne e uomini il convincimento è che si stia esagerando, colpevolizzando l’intero sesso maschile.

Occorre dunque cambiare alle fondamenta il modo di educare i maschi, fin da piccoli, a considerarsi, come le femmine, portatori di gentilezza, premura, sensibilità, cura e non solo muscoli.

Sappiamo tutti che è difficile ma senza questo lavoro di smantellamento dei pregiudizi, degli stereotipi, del sessismo inconscio e della misoginia che deve iniziare dai primi anni di vita dei bambini, non faremo che continuare a piangere donne massacrate uccise da uomini “normali e perbene.”

Stefania Lastoria

 

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