Fenomeno Barbie

Mission Impossible 7, Indiana Jones 5, Oppenheimer? Ma di che, non ce n’è per nessuno! L’esplosione della vera bomba atomica cinematografica che sta travolgendo ogni altro titolo, disintegrandone le stesse possibilità di incasso, è lei, Barbie, di Greta Garwin. O Barbie-nheimer, come ormai la chiamano, proprio in riferimento Robert Oppenheimer, il responsabile di quel Progetto Manhattan, per la costruzione della prima boma atomica e su cui è uscito ora il film. Per Barbie, però, anche le sale italiane sono in sold out. Pubblico prevalentemente femminile giovanile, anche con ragazzi al seguito. Sono le ragazze che da bambine giocavano con i vari modelli di Barbie e del suo fidanzato Ken. Il film è in originale con i sottotitoli in italiano, dunque nelle grandi città molte sono le straniere, americane e inglesi in particolare a riempire le hall dei cinema già mezz’ora prima dell’inizio, vestite con le varie tonalità di rosa usate dalla bambola della loro infanzia. La visione del film in sala è anche la visione di tale imperdibile spettacolo, fenomeno sociale, culturale.

 

Il film in sé non è irresistibile, ma neanche banale, anzi. Le stesse ragazze si sono sì divertite, hanno sì riso, ma neanche tanto clamorosamente ad alcune azzeccate battute. Non sembrano, però, uscire in preda all’entusiasmo a fine spettacolo, come capita invece per certi film degli Avengers. Sciamando fuori dalla sala, a commentare sembrano più i maschi che direttamente loro. Forse è l’improvvisa, inaspettata battuta finale a spingerle più al silenzio di una riflessione interiore. Riflessione non tanto sulla fine dell’infanzia, quanto sull’inizio dell’età seriamente adulta. E di ciò che in essa avranno in sorte. O forse le incastrerà, volenti o nolenti, dentro un ruolo biologico socialmente, culturalmente precostituito. Battuta che è anche una vertiginosa capriola all’indietro, alla parte iniziale del film, e al rovesciamento del pensiero sulla morte che origina tutto il percorso andata-ritorno-andata da Barbieland al Mondo Reale.

Viaggio compiuto – anche non desiderandolo affatto – con Ken. Los Angeles si svela così il luogo e la circostanza in cui i due scoprono molte cose: il femminismo e il patriarcato, in primo luogo. Temi trattati sì con le sfumature rosa emotive e scenografiche della commedia, ma non per questo stupide. Il patriarcato viene anzi coniugato con la guerra, quale unica attività che sembrano saper concepire e realizzare tutti i Ken, ossia tutti i maschi tutti giù per Terra: sia a Barbieland, sia nel Mondo Reale. Il riferimento più o meno inconscio a quella ora in atto al confine orientale d’Europa è inevitabile. Così come inevitabile il silenzio riflessivo delle ragazze a fine film perché – dopo tanti discorsi ben scritti e ben recitati sul femminismo – l’ordine ristabilito, può magari camuffarsi proprio dentro il tono ironico, sibillino di quella inattesa battuta e finale a sorpresa.

La scenografia richiama stilisticamente non solo i colori, ma anche tutti gli accessori della scatole Mattel. Risulta pienamente riuscita, ricreata accuratamente ma non stucchevolmente. Margott Robbie una Barbie straordinariamente azzeccata. Ryan Gosling riesce nell’impresa di dare una personalità a Ken non meramente ancillare di Barbie.

Riccardo Tavani

 

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