Lavoratori poveri, governo becero

Così recita l’articolo 36 della Costituzione Italiana: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione… in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

A quanto pare, questo articolo è rimasto (o è diventato) lettera morta. Secondo una ricerca ACLI, quasi il 20% dei lavoratori italiani guadagna meno di 11.000€ l’anno (cioè meno di 846€ al mese); più ottimisticamente il Ministero del Lavoro calcola al 13% la quota dei lavoratori poveri. In ogni caso, si tratta di numeri non trascurabili, che vanno dai 3 ai 5 milioni di occupati, a seconda di come si quantifichi la soglia di povertà.

I motivi del fenomeno sono certamente molteplici, ma il principale è che non è mai stata posta una soglia salariale minima garantita per legge: in altre parole, che non si è mai data attuazione all’articolo 36.

Non sarebbe ora di farlo? Sta di fatto che noi abbiamo una chiara enunciazione del principio nella carta costituzionale, ma nessuna legge che lo attui; altri Paesi, pur in assenza un principio costituzionale, hanno semplicemente una norma efficace, basata sul buon senso.

Una legge sul salario minimo non soltanto appare necessaria, ma anche economicamente utile; l’ISTAT, infatti, ha calcolato che l’attuazione della proposta di legge porterebbe un aumento del totale delle retribuzioni di 2,8 miliardi l’anno. Una boccata di ossigeno per i nostri asfittici consumi interni, ma senza aggravio alcuno per le casse dello Stato o dell’INPS, come i recenti provvedimenti del governo sul cuneo contributivo. E che ci sarebbe di male se, una volta tanto, il costo di un beneficio fosse a carico degli imprenditori (cioè di chi ha guadagnato sul lavoro povero) anziché del bilancio dello Stato, che vorrebbe dire aumentare le tasse o ridurre altri capitoli di spesa? Non sarebbe un’iniziativa improntata ai migliori principi liberali?

Si potrà discutere sulla cifra dei 9 euro dell’attuale proposta di legge, o se si debbano considerare delle eccezioni, come per esempio il caso in cui il datore di lavoro assicuri vitto e alloggio (la discussa fattispecie dei “badanti”), ma è difficile sostenere che non serva una soglia salariale minima. Infatti, diversi sondaggi hanno rilevato che la stragrande maggioranza dei cittadini è a favore del provvedimento, compresi gli elettori di destra.

Certo, il governo deve essersi sentito in difficoltà di fronte a un così ampio favore popolare per una misura proveniente dalle opposizioni. Perciò, dopo l’idea iniziale di impedirne la discussione parlamentare con un apposito emendamento (uno di quei furbi tecnicismi politici di cui volentieri faremmo a meno), ha deciso di andare a un confronto con l’opposizione. O, almeno, lo ha dichiarato, perché non c’è stato alcun confronto, bensì un rinvio, con la scusa di affidare al CNEL lo studio dell’argomento. Al CNEL? Sì, proprio a quell’ente inutile che la Lega voleva abolire nella passata legislatura, e che Italia Viva vuole abolire nell’attuale. Proprio così: quelli che sono contro il salario minimo sono anche contro il CNEL. Boh…

D’altronde, l’attuale presidente di questo ente inutile, Renato Brunetta, ha già dichiarato di essere contrario al salario minimo, dimostrando di essere perfettamente allineato col benaltrismo del governo: capito come?

È, quindi, abbastanza evidente che la Meloni la stia buttando in caciara, perché il no che vorrebbe dire è troppo impopolare. Meglio far morire la proposta di legge nella palude della melina politica.

Ma perché mai la maggioranza è così contraria?

Ufficialmente le motivazioni principali sono che con il salario minimo si rischia un allineamento al ribasso dei salari, e che il salario dovrebbe essere determinato dalla libera contrattazione tra le parti.

La prima motivazione è una balla: il salario minimo esiste in moltissimi Paesi (21 su 27 dell’UE, nonché negli USA, Nuova Zelanda, Australia e Regno Unito) e in alcuni da oltre un secolo: ebbene, in nessuno di questi ha determinato un abbassamento dei salari. Anzi, la maggior parte di quei Paesi hanno retribuzioni ben superiori alle nostre.

La seconda è un po’ contraddittoria. Dovrebbero, infatti, spiegarci perché mai, vigendo già oggi la libera contrattazione, i salari sono così bassi. Forse la contrattazione non è sempre libera e onesta: allora il salario minimo non può che emendarla, senza doversi affidare a riforme future, difficili e forse improbabili.

Le misure alternative sono un po’ fumose, tranne una: facciamo salire i salari netti riducendo il carico fiscale. Ma per i primi 8.174€ di reddito le tasse non si pagano. O lo hanno dimenticato? L’eventuale taglio del cuneo fiscale non porta un beneficio tangibile alle retribuzioni più basse (quelle dei lavoratori poveri), e comunque grava sui conti pubblici; al contrario, il salario minimo alza le retribuzioni più basse senza gravare sul bilancio dello Stato: è una misura semplice, efficace e a costo zero per il bilancio statale, sempre in bilico sulla voragine del debito pubblico. Diciamola tutta: la maggioranza preferirebbe finanziare l’aumento salariale con il cosiddetto “pizzo di Stato”, nelle sue diverse forme, cioè tasse o debito.

Orbene, si può capire, fino a un certo punto, che si raccontino balle al popolo per giustificare la propria linea politica, ma non è possibile che loro stessi credano alle proprie panzane. Ed allora si ripropone la domanda: qual è il vero motivo?

Non posso certo saperlo, ma due o tre ipotesi le farei.

La prima è squisitamente politica: la maggioranza segue l’imperativo di dire sempre di no alle opposizioni, anche a danno dei cittadini. Può darsi che ritenga che questo atteggiamento paghi in termini elettorali, mascherando da fermezza e coerenza quel che è solo stupida testardaggine. È solo un’ipotesi, ma forse, stando alle indagini demoscopiche sull’orientamento politico, ha una sua credibilità.

La seconda è di tipo economico.

Come si sa, il PIL italiano è cresciuto nel corso del 2022 e nel primo trimestre 2023, per poi iniziare a scendere. Si è sperato in un nuovo miracolo economico, ma in realtà è stata una crescita effimera, ed il PIL è calato dello 0,3% nel secondo trimestre di quest’anno. Pur essendo molteplici i fattori che influenzano l’andamento del PIL, certamente i bassi salari hanno reso i prodotti italiani più competitivi ed hanno favorito non poche aziende, contribuendo al trend di crescita: una crescita sulle spalle dei lavoratori, che sono tra i meno pagati d’Europa, e soprattutto sulle spalle degli strati più poveri della popolazione. Ma si sa, uno sviluppo che si regge sui bassi salari e non sull’innovazione tecnologica o sulla produttività non può durare. Temo perciò che l’innalzamento della soglia salariale minima (quei 2,8 miliardi a carico dei datori di lavoro che il salario minimo comporterebbe) sia visto come un pericolo per l’economia: non avendo il governo agito sugli altri fattori di crescita, continua a puntare sui bassi salari, operazione quanto mai cinica e miope, dissimulata sotto diversi strati di maquillage e di disinformazione.

La terza spero che non sia vera, nonostante il famoso aforisma di Andreotti, secondo il quale a pensar male ci si azzecca quasi sempre: la maggioranza conta di prendere più voti bastonando i poveri, che in linea di massima non vanno a votare. Tanto, poi, ci si rifà l’immagine con un provvedimento vistoso e demagogico sulle banche.

Così, in conclusione, di salario minimo si riparlerà tra due mesi, ammesso che il CNEL sia solerte e puntuale, e che non sia troppo condizionato dal benaltrismo già manifestato dal suo presidente. Con buona pace degli sfruttati e sottopagati d’Italia, sulle cui spalle qualcuno continuerà ad arricchirsi, magari a spese del contribuente.

Cesare Pirozzi

 

 

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