Giustizia, l’imperdonabile e l’irreparabile

Un uomo, una donna s’incontrano, si conoscono, intrecciano una relazione. Non passa neanche molto tempo che lui non solo la massacra, ma la taglia letteralmente in pezzi, la congela, poi tenta di darle fuoco. Alla fine, la imbusta in sacchi neri e la scaraventa giù per un dirupo. La donna Carol Maltesi, ventisei anni, subisce tutto questo l’11 gennaio 2022. L’uomo è Davide Fontana, quarantaquattro anni, arrestato il successivo 29 marzo. Reo confesso per l’orrore del femminicidio commesso, è condannato a 30 anni. Il Pm del processo, però, fa ricorso, proponendo l’ergastolo per “crudeltà ed efferatezza premeditate”. Il 20 settembre scorso la Corte d’assise di Busto Arsizio adotta – per la prima volta in Italia – una misura prevista dalla riforma varata dal Governo Draghi tramite la sua Ministra della Giustizia Marta Cartabia. Lo fa accogliendo la richiesta di Fontana di essere ammesso a un percorso della cosiddetta giustizia riparativa, auspicando addirittura il suo inserimento in un centro antiviolenza femminile. Il padre della ragazza si dichiara “Sconvolto e schifato”.

Cosa è la giustizia riparativa? Detto nell’estrema sintesi di un pezzo giornalistico, essa non prevede alcuna riduzione di pena, ma è solo il tentativo – espletato insieme a un mediatore istituzionale – di un dialogo capace di riparare, suturare, curare la devastante frattura provocata dal delitto sia sulle vittime, sia sull’intero tessuto sociale. Dialogo cui la famiglia della vittima può del tutto legittimamente sottrarsi, ma a cui possono, e anzi dovrebbero attivamente partecipare rappresentanti della comunità di fatto lesa ed offesa. Ossia, possono partecipare al percorso riparativo persone o familiari di vittime di delitti similari.  

Ricordiamo che il primo modello di giustizia riparativa è quello adottato da Nelson Mandela rispetto ai crimini dell’apartheid durante il regime segregazionista e razzista in Sud Africa. Là erano intere comunità di quartiere e villaggio che si radunavano in tribunale per perdonare, ossia ascoltare le confessioni, le ammissioni pubbliche dei piccoli o grandi e atroci delitti commessi. Ascolto e confessioni che erano in sé atti riparativi del precedente tessuto sociale lacerato, in quanto sgombravano la strada a una nuova possibilità. Percorso, processo individuale e collettivo in gran parte riuscito proprio perché era stato abbattuto un sistema, quello dell’apartheid, che di tali crimini aveva necessità di alimentarsi quotidianamente per riaffermare il proprio potere fondato su abuso e violenza.

Il filosofo francese Jaques Derrida affermava che l’unico autentico perdono consiste nel perdonare – paradossalmente – proprio ciò che in nessuna maniera si può perdonare. Ossia – l’imperdonabile. Il per-dono, infatti, contiene in sé il senso, il significato anche linguistico-concettuale della completa gratuità dell’atto, che non può e non deve aspettarsi nessun tipo di contropartita, risarcimento. Il caso di Davide Fontana, però, non è semplicemente un caso individuale. Al contrario è il caso di una produzione di crimine a mezzo del sistema che lo stesso individuo criminoso incarna. Proprio alla stregua dei bianchi sudafricani che ammazzavano, torturavano, stupravano, razziavano in nome del proprio interesse individuale e collettivo costituito in sistema generale di dominio. Con la sua potenza imparagonabilmente maggiore il patriarcato si erge a vero e proprio Totem-sistema. Invocandolo, l’individuo lo produce, perché esso poi agisca nelle profondità anche più buie dell’inconscio, delle paure di ogni singolo contro chi minaccia il sistema di dominio patriarcale. I tanti Davide Fontana sono solo le facce quotidianamente variabili di sicari inviati a rinsaldare la compattezza del sistema. È vero che giustizia riparativa non comporta sconti di pena, ma intanto offre la possibilità di uscire dal carcere per partecipare attivamente al suo percorso, nonché a successive e progressive misure di attenuazione detentiva. E non perché si debba invece buttare via la chiave, ma perché tale forma di giustizia – in relazione alla catena di montaggio industriale del femminicidio – se qualcosa ripara, sono soltanto le inevitabili disfunzioni e convulsioni del sistema di sterminio.  

In Italia, dove il movimento delle donne si è sviluppato più tardi che in altri Paesi, causa il ventennio dittatoriale fascista, secondo i più recenti dati Istat, mentre diminuiscono i delitti comuni, sono in costante aumento i femminicidi. E la Edu, Corte Europea dei Diritti Umani, denuncia l’alto numero di assoluzioni o condanne miti per i colpevoli di femminicidio e gravi atti di violenza contro le donne emesse in Italia. Il Totem-sistema patriarcale, da noi, lancia con più vemenza l’allarme e la paura di una messa in discussione della propria inintaccabile supremazia. Di qui l’appello muto, ma sotterraneamente, percettivamente ben udibile, che ogni singolo lancia visceralmente a ogni altro membro. Appello all’azione efferatamente violenta contro le colpevoli di un progetto di sostituzione etnica, ossia di genere sessuale, dell’atavico potere maschile.  

E in Italia, infatti, il quadro è quello di un vero e proprio genocidio di genere femminile. 87 dall’inizio del 2023, di cui l’ultimo a Castelfiorentino proprio nell’attimo di questa nostra digitazione sul computer. Circa dieci al mese, uno ogni due/tre giorni. I femminicidi rappresentano l’85% dei delitti di donne. L’88% di essi è commesso da singoli individui, il 12% da più di un autore. La voce “più di un autore” contempla anche la partecipazione di donne, ma nel 98% dei casi sono solo uomini. E nel 91% la vittima è una singola donna, ammazzata nel 89% dei casi da singoli maschi. Nel 75% dei casi l’autore è italiano, il 25% straniero. Nel 78% dei casi la vittima è italiana. Le assoluzioni e le sentenze di “non doversi procedere” raggiungono l’85% dei casi. (Fonte Ministero della Giustizia).

Il totemico potere omicidiario patriarcale domina così dal suo infondato fondamento sia il processo di paradossale perdono dell’imperdonabile, sia quello dell’autoproduzione del suo aureo sistema dell’irreparabile.

Riccardo Tavani