La chimera

“A sedici anni suonavo la fisarmonica davanti a Beaouburg – dice Alice Rohrwacher -, e poi passavo col cappello per l’obolo”. Oggi, che ha 41 anni, il prestigioso Centre George Pompidou di Parigi le dedica una retrospettiva di tutti i suoi film. Questo grazie alla sorpresa suscitata all’ultimo Festival di Cannes dal suo film La chimera, seguito dall’immediato, meritato successo attribuitole in tutta la Francia. È legittimo sperare che questa volta non sia rispettato il detto Nemo propheta in patria, e che anche in Italia sia riconosciuto l’alto valore poetico-cinematografico di questa originale, anzi singolarissima opera d’arte.

Come nel suo film del 2018, Lazzaro felice, la regista fa riemergere dal sottosuolo della realtà un’umanità al margine non solo della società, ma dell’epoca, del Tempo stesso. Al margine, eppuretenacemente ineliminabile. E dal sottosuolo anche letteralmente inteso. Il film, infatti, ambientato negli anni 80‘, ci mostra una comunità di cosiddetti tombaroli, ossia di cercatori di tombe e reperti archeologici della civiltà etrusca, tradizionali nella zona dell’alto Lazio e della bassa Toscana. Ancora oggi c’è chi cerca di impedire che si spezzi del tutto il pur labile filo rosso di tale sotterranea ma non certo sconosciuta esplorazione.

Il personaggio centrale, però, non un locale, ma uno straniero,un’inglese, anzi, l’Inglese di nome Arthur. Ha un dono: quello di sapere sempre dove scavare per trovare qualcosa. Gli altri lo seguono come degli apostoli seguono un messia. Indossa sempre un vestito, per lo più tutto bianco, pantaloni, camicia senza cravatta e giacca, ma stazzonato, coperto da un’eterna patina di polvere terrosa. Davvero una figura disperatamente cristologicaTanto capace di cercare gli antichi cocci etruschi, quanto impedito a rintracciare un filo rosso che lo guidi a ricomporre i cocci del suo amore smarrito, ossia della sua ragazza Beniamina, forse – al pari di Proserpina – scomparsa del tutto sotto terra, morta.

Cosa cercano davvero i tombaroli? La risposta è nel canto di un poeta a braccio, di quelli che custodiscono la tradizione maremmana dell’ottava rima. Egli ogni tanto irrompe sulla scena, riassumendo – come nell’antico coro greco – il pensiero dei vivi e dei morti a pelo di terra. Sì, può esserci la brama della ricchezza, ma molti cercano soprattutto un tesoro, che faccia uscire tutta la loro gente dalla miseria e dalla fame. E il film ce la fa vedere la faccia della voracità di trafugamento e traffico miliardario. Ma molto lontano da quei luoghi, da quelle voci e da quei volti. Non un Ade sprofondato nelle viscere sotto l’erba, ma un esclusivo Eden galleggiante tra flutti di champagne ed ebrezza di profitto.

Se il primo Pier Paolo Pasolini dà voce e figura al sottoproletariato urbano in via di estinzione per genocidio culturale, Alice Rohrwacher continua a mostrarci un margine antropologico che noi diamo per scomparso. Che non vediamo più, perché non vogliamo, non siamo capaci di vedere. Ma esso continua a r-esitere in una sua dimensione forse sì neo-arcaica, ma sotto i piedi del nostro prossimo post-futuro. È, infatti, lì, a ridosso della grande centrale elettrica di Torre Valdaliga Nord a Civitavecchia, o sotto gli scheletri di cemento armato dellarcheologia industriale disseminata tra la desolazione bellica del bombardamento edile sulla campagna. Là, tra quei rovi che tornano indomiti a svilupparsi, ad avviluppare i pilastri e la loro sporgente ramaglia di tondini arrugginiti, forse si cela ancora quel filo rosso, quel tesoro esistenziale che il cristo dei tombaroli Arthur e noi con lui stiamo cercando.

Riccardo Tavani

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