Natale: tempo di riflessioni

Un altro anno è trascorso, un altro Natale è arrivato. L’88° dalla fine della Seconda guerra mondiale, anch’esso segnato, come tutti gli altri, dalle guerre che funestano il mondo.

Ci prepariamo a celebrare la festa della pace, all’insegna del consumismo più sfrenato.

Il mondo occidentale, quello di cui facciamo parte, che si auto riconosce comuni radici culturali cristiane, spenderà miliardi di euro in regali, spesso inutilmente esagerati, con una mano, e continuerà, con l’altra, a finanziare le guerre.

Tutte le guerre, perché in ognuna si possono ritrovare gli interessi economici delle nostre industrie di morte.

Ci eravamo illusi, noi europei occidentali, che fosse possibile costruire un mondo in cui fossero assicurati a tutti i diritti fondamentali: il mondo caratterizzato dal Welfare state, lo stato del benessere, lo stato sociale, una società in cui, attraverso l’organizzazione statale, l’individuo fosse seguito, e se necessario assistito, dalla culla alla tomba.

Da questa concezione dello stato sono derivati il riconoscimento dei diritti politici e sociali: diritto di voto e rappresentanza, diritto al lavoro e ad un giusto salario, diritto alla salute, all’istruzione, al rispetto delle minoranze di ogni genere e della diversità, in tutte le sue declinazioni, diritto ad una vita dignitosa.

Diritto alla pace.

Dovremmo esserne ben coscienti, noi italiani in particolare, poiché li abbiamo voluti inserire nella nostra carta fondamentale: la Costituzione, che tutte le forze politiche difendono a parole, e che tutte, nessuna esclusa, hanno disatteso nei fatti.

Lunghi decenni di lotte operaie, l’impegno delle forze politiche e sindacali progressiste, la consapevolezza delle imprenditorie europee illuminate del legame simbiotico tra capitale e lavoro, della loro interdipendenza, hanno consentito, almeno sul continente, che crescessero strutture statali capaci di essere arbitri e mallevadori di ciò. Di quella architettura sociopolitica

L’intervento dello stato come soggetto attivo anche economicamente, mitigatore delle controversie e promotore dell’assicurazione per tutti dell’accesso ai beni comuni, ha consentito una progressiva riduzione della povertà e della emarginazione.

Pubblici sistemi pensionistici, sanitari e di istruzione sono stati realizzati, al di qua della cortina di ferro che ha diviso l’Europa fino alla caduta del muro di Berlino.

Non certo il migliore dei mondi possibili, con molte contraddizioni e troppe diseguaglianze, ma con molti aspetti certamente apprezzabili.

A trent’anni di distanza dalla caduta del muro che divideva l’Europa e dal trionfo del thatcherismo e della deregulation, del capitalismo selvaggio, ci troviamo a vivere in un mondo dove ognuno ha, o crede di avere, la possibilità di raggiungere la felicità, che si concretizza nell’arricchimento.

Il sogno americano, ben esemplificato dal film La ricerca della felicità.

Il film fornisce un ideale spaccato della società americana nella quale il successo personale, cioè la ricchezza economica, è visto come il traguardo più importante da raggiungere nel corso della propria vita, a costo di saper sacrificare a questo tutto: famiglia, amici, ideali e ogni altro valore.

È un uomo da ics migliaia di dollari, così veniva e viene definito il valore di un uomo negli USA. Oggi anche nella nostra Europa!

La società degli Yankee, i suoi standard, i suoi modelli, hanno travolto l’Europa, minando alla base ciò che si stava costruendo: il mondo del Welfare, fatto di servizi assicurati a tutti, sanità, istruzione, accesso ad un lavoro dignitoso, difesa dei diritti dei lavoratori, protezione delle fasce deboli, di chi non ce la fa.

In un mondo che consente all’individuo possibilità infinite di realizzazione, cioè di arricchimento secondo il paradigma vincente, essere poveri non è uno stato economico, una condizione da cui ognuno cerca di uscire, ma una colpa: la colpa di non essere capace di accumulare denaro, di non essere coerente con i dettati del capitalismo selvaggio, sostanzialmente privo, per suo elemento costitutivo, di Etica.

Restare poveri è il delitto da non commettere, la colpa di cui non macchiarsi.

Vale per gli individui e, in un mondo ormai globalizzato, per i popoli, per il genere umano.

Durissima la condanna inflitta dal sistema: emarginazione, fame, impossibilità di curarsi, mancanza di libertà, epidemie, conflitti sociali, guerre.

Basta rivolgere uno sguardo non superficiale a quanto accade oltre i confini del nostro mondo per verificare come la povertà sia all’origine di molti conflitti che troppo spesso diventano guerre.

Il nemico, l’unico nemico accettabile come tale e da combattere, è la povertà.

È su questo parametro, la lotta alla povertà, che dovremmo valutare le azioni delle forze politiche e dei governi, soprattutto noi che apparteniamo al mondo privilegiato, ricco, che si riconosce, in larga parte, in comuni radici cristiane.

L’avvicinarsi del Natale può essere l’occasione per un momento di riflessione anche su argomenti che troppo spesso preferiamo accantonare. 

Corrado Venti

 

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