Noi non ci san-remo: noi giovani del Folkstudio

Se questa è una follia collettiva destinata a esaurirsi, sono contento di esserci stato dentro quel tanto che basta per dire: “Io c’ero”. Qui all’Asinino io c’ero e questa follia non si esaurirà ma sarà trasporta dal vento in ogni dove. Eravamo qui, non a Sanremo, i giovani del Folkstudio con Luigi Grechi, suo fratello Francesco e decine di cantautrici e cantautori, musiciste e musicisti, appassionati di cantautorato e musicultori. Una umanità variegata di persone accomunate dalla fratellanza della musica d’autore. 

Qui sono piovute le musiche, le parole, ognuna stava in grembo a qualche nuvola. Ogni canzone è stata prima scroscio e le sue note gocce. Le canzoni, dice Erri De Luca, come gli odori, e più della vista, affilano i ricordi. Il ricordo dei giovani del Folkstudio, riproposto in questo concerto multiplo da Luigi Grechi, che rivendica con forza di non aver usurpato nessun nome, nessuna storia, perché i giovani del Folkstudio sono loro, tutti quelli che sono qui e che si sono avvicendati negli anni sul palco di Trastevere prima e poi su quello dell’Asino che vola. 

Noi non ci Sanremo, ma sul palco ci sono i fiori, un ironico modo di ricreare un palcoscenico magico, ma non per le luci e le paillettes, ma per i suoni e le voci, uniche e originali. Sul palco salgono diciannove cantautrici e cantautori, non bravi ma bravissimi, ognuno con il suo dono da condividere con il pubblico, numeroso e appassionato. Un pubblico che non si butta dalle balconate, per dirla come Luigi, ma che ascolta e applaude, con rispetto, con garbo, ma soprattutto con una intensità emotiva, ogni esibizione.

Difficile menzionarli tutti, ma non possiamo fare a meno di citare Alessio Castelli Marino, cantautore di Ostia, la marina di Roma, che propone la “Canzone alla notte” dedicata a tutte quelle persone che vivono sulla strada e che della strada hanno fatto la loro abitazione. Una realtà vera, dipinta con romantica disperazione, per poi dare dignità alla strada e ai suoi abitanti, dimenticati dal Sanremo ufficiale ma ricordati in questo non Sanremo in cui noi “non ci Sanremo”. Alessio rappresenta l’anima più pasoliniana di questo nuovo modo di fare canzoni,  mettendo in musica, con l’ausilio della armonica che ti lacera le carni fino alla commozione più pura e naturale, la cruda realtà degli emarginati. Alessio Castelli Marino una grande novità sulla scena musicale non solo romana ma nazionale.

“C’erano ancora le bandiere rosse…” canta Tiziano Mazzoni, intonando la canzone della povera gente, sottomessa dai poteri che tutto si prendono e nulla lasciano. Ma un tremito, canta Mazzoni, ci prende con un battito d’ali. Mazzoni non è a Sanremo è qui all’asino con la sua voce profonda e il volto sereno in armonia col corpo e con le parole che intona. Una voce che ti entra dentro, scava e poi si adagia lasciandoti il tempo di riflettere. 

L’asino che vola, stasera con i giovani del Folkstudio supera se stesso, sembra ricordarci che il futuro non è nella spiegazione ma nell’incanto dei testi davanti all’universo, alla musica, all’esistenza, semplicemente non si arrende.

Sul palco non c’è tregua, lo scambio è continuo, la sala è stracolma, si respira l’energia dei grandi eventi, ma questo è un grande evento, i migliori e le migliori musiciste sono qui a dire che esiste la canzone italiana che non va in televisione, ma si esibisce per raccontare storie d’amore, di sofferenza, di gioia, di emarginazione, senza emarginare nessuno. Questa l’immensa intensità dei giovani del Folkstudio. 

Quando la musica batte sulle tempie, adesso più che mai, si percepisce l’euforia del pubblico e il mondo interiore prende le sembianze di Angela Davis Loconte, ed è quasi bossanova, è aria penetrante nei polmoni e nel cervello. Angela Davis Loconte è originale, sinuosa negli impercettibili movimenti lenti, con una forza interpretativa fuori dal comune. Unica nel suo genere, recita cantando, scardinando l’Adorno che è dentro ognuno di noi. Canta ogni nota come se fosse l’ultima, feroce e totale nei gesti e nelle tonalità. Una canzone, più di un viaggio, un mondo esteriore che assorbe riflessi di luce propria per poi lasciarli andare nel respiro di chi ascolta.

Nel susseguirsi degli artisti, ognuno con la sua particolarità e bravura. La serata continua tra gli applausi, quando sale sul palco Lorenzo Lepore, giovane dei giovani canta la sua incertezza, il suo manifesto di vita, il futuro mancante e la deriva senza scogli o ancore di salvezza. Lorenzo, una voce grande, piena, lirica, denuncia ciò che non è o non sarà, ponendoci la domanda “cos’è che mi aspetta..” lasciando la risposta alla nostra riflessione, che essendo qui e non a Sanremo già è una risposta su chi siamo.

Una nota di merito a Leo Folgori che omaggia Luigi Grechi cantando una sua canzone “Al falco e al serpente” accompagnato da una ritmica intensa che fa alzare in piedi. Una canzone fischiata, con Morricone sullo sfondo e i deserti degli indiani. Un incanto musicale che spinge in avanti la melanconia trasformandola in una aureola spirituale che avvolge chiunque ascolti.

Quasi chiude Daniele De Gregori citando e ricordando i morti delle alluvioni, dei disastri ambientali, del dissesto idrogeologico, una canzone per non dimenticare che ci siamo e per continuare ad esserci dovremmo scegliere da che parte stare. 

Poi, un finale da lacrime agli occhi, da commozione dell’anima e del cuore quando sul palco salgono Luigi Grechi, Cisco e Mary Jo e intonano la canzone con cui chiudevano tutte le serate al Folkstudio. Una canzone cantata in coro da tutti, un abbraccio fraterno fato di lacrime, sorrisi, singhiozzi, voci sforzate e voci urlate, sospiri e respiri, tutto magicamente trasformato in un unico grande collettivo respiro del cuore, per dire noi non ci Sanremo perché siamo qui, siamo i giovani del Folkstudio.

Claudio Caldarelli

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