“Il conflitto Israelo-palestinese. Nuovi Scenari”: l’osservazione multidisciplinare a servizio dell’educazione alla pace

Nella mattinata dello scorso 14 dicembre, presso l’IPU, Sede Aggregata della Tuscia dell’Università Pontificia Salesiana, sita in Montefiascone, si è svolto il convegno dal titolo “Il conflitto Israelo-palestinese. Nuovi Scenari”. Un tema di grande attualità che necessita, ai fini di essere compreso, uno sforzo interpretativo delle molteplici dinamiche dalle quali prende vita.

L’incontro è stato pensato, progettato ed impostato al fine di offrire una narrazione del fenomeno imparziale e capace di andare al di là della propaganda messa in atto dalle parti coinvolte, promuovendo, così, la visione di possibili, seppur attualmente lontani, scenari di pace.

Il convegno, organizzato dall’Università, dal Comune di Montefiascone e dalla Società Internazionale di Conflittologia (ICS), era aperto a chiunque fosse stato interessato al tema trattato, ed ha visto la numerosa partecipazione non solo di studenti ed ex-studenti IPU, ma ha anche ospitato una moltitudine di ragazzi provenienti dagli istituti superiori, la cui maggioranza maturandi. L’evento si è rivelato, quindi, un’occasione in cui l’Istituzione Università si è aperta al territorio,  ed in particolare ai suoi giovani, dimostrandosi attenta alla promozione della cittadinanza attiva, del pensiero critico e dell’educazione alla pace.

Il convegno, che si è svolto presso l’Aula Magna dell’IPU dalle ore 9:30 alle ore 12:15, era strutturato mediante quattro interventi che hanno visto l’alternarsi di relatori, la cui analisi proponeva visioni diversificate del fenomeno, capaci di donare ai numerosi ascoltatori, presenti o collegati mediante la piattaforma Meet, una narrazione del fenomeno frutto di un dialogo multidisciplinare.

Il primo intervento, di carattere storico, a cura della Prof.ssa Elena Mazzini, si è occupato di illustrare le principali tappe generatrici degli attuali scenari di conflitto. Al fine di dare dei riferimenti spaziali relativi all’insorgenza delle dinamiche dello stesso, si è presa come base di partenza una serie di fonti cartografiche, divise per macro-periodi, che hanno illustrato i cambiamenti della geografia politica nell’area interessata a partire dal 970 A.C. fino 1967 (anno dell’inizio dell’occupazione israeliana). Di seguito, individuando le radici storiche dei contrasti odierni nella seconda metà dell’800 (storicamente riconosciuto come “il secolo dei nazionalismi”), ci si è concentrati sui moventi di natura ideologica che dividono le fazioni, affermando come la contesa nasca dallo scontro di due forme di nazionalismo in competizione per il controllo del territorio: il Sionismo (definito in breve come ideologia nazionalista e colonialista, finalizzata a costruire uno Stato nazionale ebraico che possa fungere da “Stato rifugio” per tutti gli ebrei, ponendo fine alla Diaspora e alle persecuzioni antisemite) ed il Nazionalismo degli arabi (cristiani e musulmani) residenti in Palestina, la cui finalità sarebbe l’istituzione di uno Stato Arabo Palestinese (che originariamente nasceva dalla volontà di rendersi indipendenti dagli Ottomani e dall’Impero Britannico). I fatti sui quali si è prestata maggiore attenzione sono quelli successivi alla fine della seconda guerra mondiale, presentati in ordine cronologico, fino ad arrivare ai primi anni del 2000: 

– la nascita dello Stato d’Israele, il 15 maggio del 1948, che i palestinesi chiamano Nakba (catastrofe);

– la guerra dei sei giorni, 5 – 10 giugno del 1967, che vede Israele attaccare Siria, Giordania ed Egitto e, quindi, l’inizio dell’occupazione militare di Gaza e Cisgiordania (evento cui conseguirono l’occupazione di alcuni luoghi sacri ed identitari per l’ebraismo, come la città di Hebron ed il Muro occidentale, e che stimolarono la controparte a rispondere istituendo l’OLP, Organizzazione per la Liberazione della Palestina);

– la prima Intifada, una sollevazione palestinese di massa contro il dominio israeliano, durata dall’ 8 dicembre 1987 al 13 settembre 1993, che iniziò nel campo profughi di Jabaliya per estendersi in seguito coinvolgendo Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est;

– la ratifica degli Accordi di Oslo del 13 settembre 1993, evento che segna un periodo di dialogo, che durerà fino ai primi anni 2000, dovuto al riconoscimento reciproco tra OLP ed Israele ed all’istituzione dell’ Autorità Nazionale Palestinese (organo il cui compito consisteva nell’autogovernare, seppur in modo limitato, parte della Cisgiordania e la striscia di Gaza). Il dialogo che ne scaturì ebbe termine, causando un successivo ritorno alla violenza,  a causa dei malcontenti dovuti alle mancate risoluzioni delle problematiche che ponevano dinamiche di tensione tra le popolazioni, quali la non istituzione di uno Stato Palestinese ufficialmente riconosciuto;

– la seconda Intifada, durata dal 28 settembre 2000 fino all’ 8 febbraio 2005, che rappresentò un periodo di violenza generalizzata caratterizzato da violenza capillare, numerosi attacchi terroristici a danno di militari e civili, repressioni dure, punizioni collettive, lotte interne all’OLP tra le fazioni di Fatah e Hamas (dove proprio quest’ultima si presenta ai palestinesi come la sola forza politica in grado di difendere i diritti del popolo dimostrandosi, di fatto, contraria a qualsiasi possibile accordo con Israele);

– tra i principali fatti del 2006 ricordiamo la vittoria di Hamas alle elezioni politiche;

– tra i principali fatti del 2007 ricordiamo i vari report di denuncia dell’UN, che lamentavano condizioni di vita svantaggiate degli abitanti di Gaza, causate dalle ingerenze israeliane sull’area, e la messa al bando di Hamas per mezzo di un decreto del Presidente Mahmūd Abbās (Fatah) a seguito della “Battaglia di Gaza” che vedeva coinvolte le fazioni palestinesi Fatah e Hamas.

Il secondo intervento, di carattere giuridico, a cura del Prof. Massimiliano Nisati, 

ha proposto una riflessione che si muoveva su un binario costituito da una parte dal diritto di fare ricorso alla guerra e dall’altra dal diritto internazionale umanitario. Lo scopo dell’intervento era prendere in analisi l’azione di ambo le parti, evidenziando dove ed in che modo, questi contravvenissero o fossero conformi al diritto. Si è partiti da alcune considerazioni riguardo il massiccio ed indiscriminato coinvolgimento di vittime civili durante gli attacchi di Hamas e le controrisposte israeliane, che di per sé attestano già la presenza di crimini.

A seguire si è analizzato entro quali limiti il ricorso alla resistenza può ritenersi legittimo.  È necessario tenere a mente che la Striscia di Gaza, intesa dall’ONU come parte integrante del territorio palestinese, è da considerarsi luogo occupato da Israele, in quanto questo ne esercita il controllo sia sul territorio che sullo sfruttamento delle risorse. Quindi, sulla base di questa considerazione sorge spontaneamente una domanda: cosa norma la resistenza esercitata dalla popolazione di un territorio occupato? Nel Regolamento dell’Aja del 1907 (leggi ed usi della guerra terrestre) e nella Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 (protezione dei civili, che si trovano in mano nemica o in territorio occupato, da atti di violenza e dall’arbitrio) troviamo principi giuridici secondo i quali non si può imporre l’obbligo di obbedienza sulla popolazione appartenete al territorio occupato nei confronti dell’occupante. Conseguentemente, per quanto concerne il trattamento dei prigionieri di guerra, i cui principi sono sanciti nella Terza Convenzione di Ginevra del 1949, chi partecipa alla resistenza contro la potenza occupante ha diritto di essere trattato come prigioniero di guerra in qualità di legittimo combattente. Un altro punto di fondamentale interesse giuridico risiede nel principio di autodeterminazione dei popoli, codificato dall’Assemblea Generale dell’ONU con Risoluzione n. 2649 il 30 novembre 1970, dove viene supportata la legittimità della lotta contro la potenza occupante. L’esercizio legittimo di tale principio prevede che vengano rispettate delle condizioni quali: 

– l’immediato ed esplicito riferimento al diritto internazionale dei diritti umani;

– la volontaria soggiacenza all’autorità sopranazionale delle Nazioni Unite e delle istituzioni regionali da questa coordinate;

– l’impegno a non ricorrere alla violenza, ma agli strumenti propri del metodo democratico: negoziato, referendum, plebiscito, elezioni, ecc.;

– l’impegno nel rispettare tutti i diritti umani, in particolare i diritti delle minoranze;

– l’impegno affinché l’eventuale nuova entità territoriale non sia armata;

– l’impegno nel darsi una costituzione democratica che riconosca esplicitamente il primato del diritto internazionale dei diritti umani;

– l’adesione ad un sistema di integrazione internazionale.

Da ciò ne deriva che la resistenza contro la potenza occupante è permessa ma non costituisce un diritto e che questa non è permessa con ogni mezzo, in quanto deve rispettare le regole del diritto internazionale umanitario. Nello specifico, dalle informazioni che ci giungono, l’azione di Hamas contravviene al diritto internazionale umanitario in relazione alle gravi violazioni relative al Protocollo aggiuntivo del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949 (relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati e non armati internazionali) per i seguenti motivi: lancio di attacchi indiscriminati, attacchi diretti ai civili, attacchi lanciati al solo fine di seminare terrore, presa di ostaggi.

Arrivati a questo punto è stato necessario analizzare anche i margini di legittimità dell’azione israeliana. Ai sensi del Regolamento dell’Aia del 1907, la potenza occupante ha il dovere di ristabilire, finché possibile, l’ordine pubblico e la vita civile nel territorio occupato. Ciò costituisce un contrappeso importante alla mancanza dell’obbligo di obbedienza della popolazione locale: il diritto internazionale non vieta la resistenza ma permette alla potenza occupante di reprimerla. Per quanto riguarda il diritto di legittima difesa, questo non può essere invocato da parte d’Israele considerando la sua posizione d’invasore.

L’insieme delle azioni e delle modalità con le quali lo Stato israeliano si esprime come agente bellico lo vedono, di fatto, contravvenire al divieto di starvation sancito dall’Art.14 riguardante “Protezione dei beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile” appartenente al Secondo Protocollo Aggiuntivo del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949 (relativo ai conflitti non internazionali). È quindi vietata l’attuazione di campagne di distruzione dei beni agricolturali o il bombardamento delle riserve di cibo e acqua in quanto la difficoltà nel garantire alla popolazione civile beni di prima necessità comporta inevitabilmente una situazione di carestia, malnutrizione e morte di stenti. Infine si è aggiunta la violazione dei principi di precauzione, distinzione e proporzionalità in ogni operazione militare nella Striscia di Gaza. La contravvenzione di tali principi può comportare anche la responsabilità individuale per crimini di guerra.

Concludendo, il Prof. Nisati si è espresso definendo quanto analizzato come “una carrellata di orrori che noi internazionalisti chiamiamo crimini internazionali”. È bene tenere a mente che, se Hamas sembrerebbe responsabile per crimini di guerra e contro l’umanità, dall’altra parte Israele sembrerebbe responsabile di violazioni del diritto internazionale umanitario nei confronti dei civili palestinesi.

Il terzo intervento, di carattere geopolitico, a cura del Prof. Alessandro Ceci, si è occupato di analizzare il conflitto sotto l’ottica della comunicazione, collocando questo fenomeno e le sue dinamiche d’importanza storica nei nuovi scenari internazionali. Nella lieta consapevolezza che nessuno dei presenti potesse aver fatto esperienza della vita in guerra, si è partiti con una serie di sforzi immaginifici nel tentativo di comprendere come le azioni belliche comportino una vera e propria destrutturazione della realtà. Per farlo si è comparata la “Guernica” di Picasso con immagini reali che ritraevano dettagli delle trasformazioni, urbane e di conseguenza umane, successive ai bombardamenti, proprio perché, come rammentava il Prof. Ceci, “è dentro questa distruzione, questa destrutturazione, che dobbiamo fare lo sforzo di ricercarvi i segni del futuro”. È, quindi, dallo sforzo analitico dei fatti, degli scenari destrutturati prodotti, pervasi da polvere, macerie e grida di dolore, che si può tentare di intuire e capire cosa stia nascendo di nuovo. È stato necessario, quindi, porsi una domanda: cosa si cela dietro le dinamiche di tensione rinnovate e rinvigorite dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023? In primo luogo, è stato necessario analizzare la differenza tra gli obiettivi delle parti. La condizione su cui poggiavano questi obiettivi, evidenziati dall’analisi del Prof. Ceci, era la seguente: contando anche Gaza, la percentuale di territorio dell’intera regione sotto il controllo dei palestinesi corrisponde all’11%. Da ciò ne conseguirebbe che, se per Israele l’obiettivo massimo sia la conquista totale dei territori della Palestina, l’obiettivo di Hamas non sarebbe tanto il controllo della regione quanto la possibilità di porsi come interlocutore ed elemento di raccordo (di connessione) tra una serie di paesi arabi intenzionati a costituire il Califfato, come una sorta di piattaforma continentale di nazionalità araba.

Seguentemente, partendo dal presupposto secondo il quale è impossibile che il Mossad (servizi segreti israeliani) non fosse al corrente dell’attacco di Hamas (tesi che prenderebbe valore alla luce dei rapporti intrattenuti tra lo stesso Mossad ed i servizi d’intelligence egiziani, i quali sembrerebbe abbiano avvisato lo Stato d’Israele con largo anticipo), Israele avrebbe lasciato ad Hamas la possibilità di sferrare l’attacco del 7 ottobre, così da poter disporre di una giustificazione sul piano internazionale per dare il via ad un’operazione militare di occupazione di terra che rendesse possibile la presa di Gaza.

Successivamente, si è cercato di comprendere quali fossero stati gli errori socio-culturali che abbiano contribuito alla creazione delle dinamiche di ostilità tra le parti, che per secoli e secoli si sono trovate a condividere storicamente lo stesso territorio. In base a quanto riferito, l’errore di Israele sarebbe stato quello di non aver contribuito, mediante processi di occidentalizzazione da esso sostenuti, alla costruzione di una democrazia in sintonia con la dimensione valoriale propria di tutte le popolazioni presenti sul territorio (“il vero nucleo negativo che Israele porta nell’area araba è l’occidentalizzazione, dimostrandosi così un nemico per definizione, a partire dal piano culturale”). L’errore che invece viene attribuito ai palestinesi (OLP) consisterebbe nel non aver dato una struttura politica alla Palestina.

In conclusione il Prof. Ceci ha esposto l’impossibilità di prevedere una soluzione che non contempli l’impegno di una serie di attori esterni, alla luce di una moltitudine di implicazioni geopolitiche che rendono questo conflitto qualcosa che va al di là delle manifestazioni calde, che sembrano coinvolgere unicamente la regione della Palestina.

Il quarto intervento, di carattere politico-economico, a cura del Dott. Michele Sances, era volto ad esplicitare quelli che sono gli interessi che si celano dietro le dinamiche conflittuali, ipotizzandone delle possibili risposte. Si è iniziato facendo un paragone tra l’area della Palestina e l’Europa precedente alla fine della seconda guerra mondiale. La storia del continente europeo è stata per secoli caratterizzata da grandi conflitti (la battaglia di Sedan, le guerre Napoleoniche, la guerra dei cento anni, ecc…) e, non a caso, anche entrambi i conflitti mondiali si sono originati in Europa. Le ragioni d’insorgenza di questi episodi bellici passati sono spesso accomunate da motivazioni di tipo economico (basti pensare alla seconda guerra mondiale i cui germi nascono dall’occupazione della Rhur).  Ad un certo punto si rese evidente che l’unico modo di evitare il protrarsi di conflitti potesse essere, quindi, la creazione di un progetto comune europeo, delineando, di seguito, tre diversi concetti: il Federalismo (Stati Uniti europei – Altiero Spinelli), il Confederalismo (Europa delle patrie – De Gaulle), il Funzionalismo (creazione di istituzioni sovrannazionali di carattere tecnico amministrative finalizzate a risolvere problemi specifici – Monnet [David Mitrany]). Successivamente alla disfatta del progetto CED (comunità europea di difesa) prevalse la scelta di un sistema di tipo funzionalista (che è alla base della CECA e che poi permetterà la nascita CEE, CE e infine dell’UE). 

Cosa si evidenzia da questi trascorsi della storia europea? Come ha affermato il Dott. Sances, da oltre settanta anni non ci sono guerre sul suolo europeo e le motivazioni ci ciò vanno ricercate nelle implicazioni dovute alle condizioni di partenariato economico-politico che intercorre tra gli stati membri dell’unione: una guerra tra questi sarebbe così tanto sconveniente da essere automaticamente scoraggiata da ogni forma, anche minima, di ragionevolezza.

Tornando alle questioni specifiche riguardanti l’area geografica della Palestina, il Dott. Sances ha presentato due interpretazioni di natura economica. Secondo una prima chiave di lettura, il conflitto in Palestina trarrebbe origini dalla crisi dell’egemonia statunitense. A ragione del deficit commerciale che gli Stati Uniti nutrono nei confronti di Paesi in forte crescita come la Cina, questi avrebbero deciso di dare vita al friendshoring: ovvero alzare barriere commerciali nei confronti di paesi ‘non amici’ e di fatto dividendo il mondo in due (‘amici’ vs ‘non amici’). Tuttavia il blocco degli amici (paesi occidentali) sarebbe privo di fonti di produzione di energetica sufficienti, motivo che ha spinto gli Stati Uniti a promuovere gli accordi di Abramo (accordi di normalizzazione delle relazioni tra Israele e il mondo arabo) che però, non affrontando il problema palestinese lo hanno esacerbato.

La seconda chiave di lettura del conflitto israelo-palestinese individua le ragioni in un problema di spartizione e accesso alle risorse naturali del territorio. Fino agli anni 2000 si credeva che il territorio israelo-palestinese fosse privo di risorse importanti. Tuttavia la scoperta di grandi giacimenti off shore di gas naturale ha parzialmente modificato questa narrazione. Sulle coste israeliane sono stati scoperti i grandissimi giacimenti Leviathan e Tamar che hanno rivoluzionato l’economia israeliana. Mentre su quelle palestinesi è stato trovato il Gaza marine (che sarebbe in grado di risolvere il fabbisogno di gas palestinese e addirittura gli consentirebbe di diventare esportatore). Malgrado questa presenza, il Gaza marine non è utilizzabile perché sottoposto a blocco navale israeliano dal 2007. Questo, unito al fatto che il pozzo petrolifero del Meged (sfruttato esclusivamente da Israele) sia, secondo l’ANP, per l’80% su territorio palestinese, alla differenza di reddito procapite (5411$ vs 3514$) e di tassi di disoccupazione, alla scarsa fornitura energetica della Palestina e al fatto che la Palestina sia in gran parte dipendente dalle forniture israeliane, alimenta la divisione fra i due paesi. Divisione alimentata anche dalla politica che ne sfrutta i risvolti.

Terminata l’analisi, il Dott. Sances, ipotizzando possibili soluzioni, ha  aggiunto:

Guardando alla storia europea e date le similitudini, nel tentativo di trovare una risoluzione delle asperità, si potrebbe utilizzare il metodo funzionalista mediante la creazione di un’istituzione sovrannazionale condivisa, diretta alla soluzione dei problemi di approvvigionamento energetico ed alimentare. L’Europa, inoltre, potrebbe, attraverso la sua forza economica, cercare di promuovere la creazione di aziende cogestite da palestinesi ed israeliani. Ciò potrebbe avviare la creazione di una intensa rete di rapporti capace di scongiurare possibili conflitti futuri”. 

Al termine degli interventi ci si è concesso un breve seppur intenso spazio per delle domande, sfociate in un dibattito appassionato ed al contempo ordinato, perfettamente in linea con il tenore proposto dalla manifestazione.

Riassumendo il fine ultimo del convegno, quindi, non possiamo non citare proprio un pensiero del Prof. Ceci, che ha concluso dicendo: “La guerra è la più violenta opera di distruzione dell’umanità. Dopo ogni guerra bisogna ricominciare da capo. Tuttavia, ricominciare con una cultura della pace, significa evitare di ripetere gli errori del passato e di ripristinare le condizioni di devastanti conflitti”.

In questo senso possiamo dire che, indubbiamente, l’Università Pontificia Salesiana, anche per mezzo di prestigiose realtà come l’Istituto Universitario Progetto Uomo ed i suoi partner presenti sul territorio della Tuscia, sta dando prova di un impegno ed una mission chiara e precisa: Primum Educere.

Davide Pezzato

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