Democrazia e cultura umanistica: la parola e il silenzio

In anni recenti, per sintetizzare il senso delle riforme nella scuola italiana, la politica ha lanciato lo slogan: inglese, internet, impresa. Tre parole – osserva il giurista Gustavo Zagrebelsky – che hanno un’anima esecutiva, che esaltano, secondo l’ideologia aziendalista, il momento esecutivo ignorando, anzi nascondendo, quello deliberativo.  “Dalla scuola – scrive – si bandiva quella cosa così evanescente, ma così importante per tenere insieme una società senza violenza e competizione distruttiva, che è la cultura”.[1]

La filosofa Martha Nussbaum ha ricordato, infatti, che le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica perché per comprendere un mondo complesso non bastano solo abilità pratiche e conoscenze tecnico-scientifiche, ma servono strumenti sempre più raffinati, intelligenze flessibili, aperte e creative, capaci di autonomia di giudizio, senso critico e immaginazione[2].

Ci troviamo quindi immersi in una situazione inedita, che non può essere affrontata adeguatamente riferendosi alle categorie di progresso e di regresso.

In questo contesto, la filosofia può presentarsi come rivoluzionaria.  Nulla è infatti più rivoluzionario di ciò che conserva la vocazione all’utopia – non a caso il sociologo Franco Ferrarotti parla spesso di “valore sociale dell’utopia” – e delinea scenari alternativi. Anche se ci priviamo del tempo per viverli.

Danilo Dolci, per rispondere ad una domanda in cui gli si chiedeva se si ritenesse un utopista, affermava: “Sono uno che cerca di tradurre l’utopia in progetto. Non mi domando se è facile o difficile, ma se è necessario o no”.[3]

Vittorio Luigi Castellazzi parla dell’importanza dell’ascolto attraverso la parola, intesa non solo come parola parlata, ma nel significato che trasmette, nella parola nascosta nei gesti, negli sguardi e, certo, nelle parole vere e proprie: “Le parole non sono mai semplici articolazioni di suoni. Non sono solo fonemi. Dicono sempre qualcosa. Non esistono parole asettiche, disincarnate. In ogni parola vi è racchiuso un vissuto personale fatto di sentimenti, emozioni, desideri e bisogni”.[4]

È per questo che dovremmo avere la sensibilità di “andare al di là delle parole”. Perché narrano sempre l’esperienza, l’esistenza di qualcuno; ascoltare le parole significa spesso ascoltare anche i silenzi che parlano, molto più delle parole stesse. A volte si usano parole a caso, solo per riempire dei silenzi che, se ascoltati, racconterebbero molto di più.

Imparare ad accogliere e coltivare il silenzio ci permetterebbe, quindi, di imparare ad ascoltare.

La dimensione del silenzio è stata declinata in chiave pedagogica da Maria Montessori: “Un giorno entrai in classe tenendo in braccio una bambina piccola di quattro mesi, che avevo preso dalle mani della mamma nel cortile. La piccina era tutta stretta dalle fasce secondo l’uso del popolo: il suo visetto era paffuto e roseo ed essa non piangeva. Mi fece una grande impressione il silenzio di questa creatura e volli partecipare ai bambini il mio sentimento. (…) Vidi con stupore una tensione intensa dei bambini che mi guardavano. (…) I bambini, sorpresi e immobili, trattenevano il respiro. In quel momento si sentì un silenzio impressionante: cominciò a diventare sensibile il tic-tac dell’orologio che generalmente non si sentiva. Sembrava che la bambina avesse portato dentro un’atmosfera di silenzio che non esiste mai nella vita ordinaria. Di lì venne il desiderio di risentire quel silenzio e perciò di produrlo”.[5]

Ascoltare significa, anche, non dare giudizi; ci ricorda che nessuno è autosufficiente, abbiamo bisogno degli altri, viviamo in una rete di relazioni: “La società liquida sembra aver sbriciolato anche l’educazione, il modo in cui una generazione accompagna le nuove leve verso l’ingresso nella vita adulta; ovvero la trasmissione dei valori e delle competenze di base grazie alle quali ogni società mantiene una sua integrità di fondo nel passaggio da una generazione all’altra”[6].

Attraverso la parola, l’educatore ha la possibilità di creare consapevolezza, ma non sarà mai un trasferimento di conoscenze: il soggetto educato deve mantenere in sé “il gusto della ribellione”[7], di cui anche Goffredo Fofi parla nella prefazione di Le virtù dell’educatore di Freire, affermando che educazione fa rima con ribellione; una rivolta in grado di immunizzare dal potere che il “nozionismo” rischia di rendere passivo stimolando la curiosità e inducendo al rischio.

L’educazione deve essere in grado di svegliare le coscienze, deve portare i soggetti a farsi domande e a dubitare, “il suo fine è di intervenire nella società per migliorarla, mossi da ideali di giustizia, di libertà, di solidarietà.”[8]

di Francesca Mara Tosolini Santelli

[1] Gustavo Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Torino, Einaudi, 2010, pag. 48-50.

[2] Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, Il Mulino, 2014.

[3] Giuseppe Barone, a cura di, Danilo Dolci, Una rivoluzione non violenta, Supplemento al n. 82 – aprile 2007 di “Altraeconomia”, Terre di Mezzo Editore, Milano, pag. 32.

[4] Vittorio Luigi Castellazzi, Ascoltarsi, ascoltare. Le vie dell’incontro e del dialogo, Magi Edizioni , Roma, 2011, pag. 57.

[5] Cfr.Maria Montessori, Il segreto dell’infanzia, Milano, Garzanti, 1970, pag. 167-170, cit. in Massimo Baldini, a cura di, Le dimensioni del silenzio, Roma, città Nuova, 1988.

[6] Franco Garelli, Educazione, Bologna, Il Mulino, 2017, pag.29.

[7] Paulo Freire, Pedagogia dell’autonomia, Saperi necessari per la pratica educativa, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2014, pag. 26.

[8] Goffredo Fofi, Per continuare a discutere, in Gli asini, n. 54-55 agosto-settembre 2018, Roma, pag. 74.

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