Precario tu, precario io…

L’incertezza non è una buona soluzione

Il concetto di “precario” nasce dall’evidente contrapposizione col suo contrario, cioè “stabile”: tanto il primo implica l’incertezza, quanto il secondo invece la sicurezza. E tutto questo si può estendere dall’equilibrio fisico dei corpi, che implicano possibili cadute di oggetti contrapposte al loro stato di quiete, come agli stati psicologici, che fanno pensare a picchi emotivi, alti o bassi, in luogo di un’aurea serenità. Ma questo concetto, associato al lavoro va ben oltre l’incertezza dell’occupazione, che comunque può implicare cadute economiche, oltre che scompensi emotivi.

Il lavoro, però, non ha una sola forma di precariato, ne ha tante e ognuna con i suoi mille aspetti peculiari: esistono molteplici contratti instabili, numerose forme di occupazione legalmente traballanti, molti tipi di collaborazioni lavorative senza certezze, tante condizioni di lavoro prive di sicurezza. Si può cominciare col contratto a Tempo Determinato, in cui la stabilità è a scadenza e sotto ricatto per il futuro, per un eventuale nuovo rapporto lavorativo, sempre a tempo. Però esistono altre forme più occulte del precariato, che incontriamo quotidianamente senza farci caso, basti pensare a quei lavoratori con camice anonimo, che possiamo incontrare in un supermercato: lavorano poche ore settimanali, frammentate in quarti d’ora, per più fornitori, anche in più punti vendita, con pagamenti che raramente avvengono prima di 3 mesi e sempre alla mercé di qualcuno (rappresentanti, agenzie appaltanti, lavoratori stabili della struttura), che può ridurre il loro giusto guadagno, riducendogli ore o compensi, che può ostacolare il loro operato o pretendere un “di più” non dovuto, quale ricatto per non essere mandato via… Oppure si può parlare della realtà dei call-center, in cui il guadagno dipenda dal numero di contatti e quindi dalla fascia oraria in cui si è collocati, in cui non esistono altre certezze, oltre al proprio impegno, alle scadenze e all’altrui insofferenza. Si possono ricordare le tante attività in nero, cui ricorre quotidianamente il mondo del lavoro, in edilizia, in collaborazioni domestiche, in facchinaggio, in giardinaggio (ecc.), al quale lo strumento dal voucher (il buono-lavoro) ha regalato una sorta di copertura giuridica, anche a posteriori, che tutela il solo datore di lavoro… E poi esistono le cooperative di prestazioni lavorative, che l’unica certezza la danno al committente, quella che il lavoro venga comunque svolto da qualcuno: da chi, come, da quanti e con quale pagamento, non è cosa che lo riguardi. Senza contare la piaga del caporalato, in agricoltura, in edilizia, le cui stime sull’incidenza degli occupati totali sfuggono a chi cerchi anche solo di quantificarla, per l’impossibilità di controllare capillarmente il problema, nella giungla di appalti, sub-appalti, sub-sub-appalti. Forse ci sarebbe da chiedersi quanti siano realmente i precari in Italia, visto che il lavoro garantito, non soggetto a scadenze, o a ricattabilità, va sempre più scomparendo, dietro le mille riduzioni di occupati per le cosiddette “crisi aziendali”. Forse ormai, siamo tutti precari.

L’incertezza, la precarietà, argomento principe del liberismo destroide, è stato lo strumento con cui la (pseudo) sinistra di governo ha riformato il mercato del lavoro, per risollevare le sorti produttive del paese. Ma anche per questo operato, dimenticandosi delle proprie radici (quando cantava “noi non siam più schiavi del lavoro”), ha assistito all’abbandono da parte del proprio popolo, che la voglia di una qualche certezza, più o meno assistenzialista, più o meno fattibile, ha portato nelle braccia del Movimento 5 Stelle.

Ma la precarietà, invece che essere la grande soluzione prospettata per l’economia, in realtà è un grande handicap: se da una parte amplia il numero di lavoratori, immettendo più soldi per il consumo interno, dall’altra a causa della mancanza di certezze per il futuro, limita questo allo stretto necessario. E poi, aspetto non secondario, la precarietà è una vera e propria piaga, che spinge all’immobilismo sociale, all’invecchiamento della popolazione (chi può permettersi di mettere al mondo un figlio?), a quelle forme di egoismo e di disagio che, oltre a far vincere le elezioni a politici come Salvini, sono alla base di un malessere diffuso, che alla fine può portare alla nascita di pericolosi movimenti eversivi.

Allora, quanto può essere una buona soluzione, questo stato d’incertezza?

di Mario Guido Faloci

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