Il sorprendente escargot western dei Fratelli Sorelle

Rendez-Vous, Nuovo Cinema Francese

Dal nostro inviato al festival, Riccardo Tavani

Grande finale con lampeggianti fuochi di revolver e barbagli d’oro nella serata finale di questa rassegna del Nuovo Cinema Francese. Il festival si chiude in realtà stasera, non però con la proposta di film ,ma con un focus proprio su Jacques Audiard, l’autore regista dello sbalorditivo e innovativo western The Sisters Brothers. Un focus che prevede una Masterclass con lui e una riproposta di sue due opere: De battre mon cœur s’est arreté, del 2005, e Un prophète, del 2009.

La giornata di ieri è però iniziata con due film di tono e tema completamente diversi dal genere western. Due vicende, tuttavia, che hanno un loro filo di collegamento. Il filo che va dalla nascita alle soglie dell’adolescenza, sullo sfondo del dramma dell’abbandono, della perdita. I due film sono rispettivamente Pupille, di Jeanne Herry, e Amanda, di Mikhaël Hers.

Pupille, ossia pupilla, significa non solo la parte centrale dell’occhio ma proprio piccola pupa, persona in piccolo. In questo duplice senso è usata da Platone che la fa pronunciare a Socrate nel dialogo Alcibiade. Se guardiamo nella pupilla di una persona davanti a noi, vediamo riflessa in piccolo la nostra persona. Theo, abbandonato appena nato dalla madre naturale, viene affidato ai servizi sociali. La donna ha due mesi di tempo per ripensarci, ma intanto bisogna cominciare anche a pensare a un’adozione. È davvero lo sguardo mirabile della regista, in quanto donna, dentro quello di un’altra donna, che a sua volta guarda nella pupilla della piccola creatura che desidera adottare e in essa si riflette come unità e unicità di legame tra due esseri. Grande interpretazione di Gilles Lellouche, nel ruolo di Jean, l’infermiere alle cui cure viene affidato il neonato, e di Élodie Bouchez, la quarantenne aspirante all’adozione, premiata al Festival di Namur quale migliore attrice. Il film riceve anche il Bayard d’Or,per la migliore sceneggiatura allo stesso Festival.

Una battuta – che contiene però una buona dose di verità – recita: “Gli psicologi si occupano dell’Io, i filosofi di Dio, gli antropologi dello Zio”.  Per l’antropologia moderna, infatti, quella dello zio – e in particolare quello materno – è il vero architrave della famiglia, intesa non solo e non tanto in senso biologico, ma proprio come evoluzione storica sociale e culturale. Nel film Amanda, un giovane zio si trova improvvisamente, drammaticamente a prendersi cura della piccola figlia di sua sorella. Lo zio si chiama David, è potatore di alberi per il Comune di Parigi, ma arrotonda lo stipendio anche come collaboratore di un affittacamere per stranieri. È interpretato da questo giovane attore francese in ascesa Vincent Lacoste. La nipote – sulla soglia tra infanzia e adolescenza –, interpretata da Isaure Multrier, dà il titolo al film, chiamandosi Amanda. Sua sorella – interpretata da Ophèlia Kolb – è Sandrine, insegnante d’inglese in una scuola pubblica. Sandrine rimane uccisa in un attentato di un gruppo della Jihâd islamica in un parco di Parigi. Aveva appena comprato tre biglietti per il torneo di tennis a Wimbledon, per lei, sua figlia e suo fratello, ex giocatore di tennis. Zio David ora si trova nella cruciale, drammatica situazione di far percorrere ad Amanda un vuoto spaventoso. Sua madre le aveva insegnato il significato di una frase: Elvis done left the building, Elvis è uscito dall’edifico”. Frase pronunciata da uno speaker alla fine dei concerti di Elvis Presley e riportata poi su un disco. Essa assume il significato non solo simbolico di un’uscita finale dalla scena. Ecco, ora David deve condurre sua nipote dal senso di questa frase riferito a sua madre fino al torneo nel Campo Centrale di Wimbledon a Londra. Qui vive anche la madre di David e Sandrine, la quale, però, li aveva abbandonati da piccoli, per andarsene con un altro uomo. Strana coincidenza per una situazione di cui avevamo già parlato ieri ha proposito della madre di Gabriel nel film Maya. La madre di David è interpretata in un intenso cammeo da Greta Scacchi.

Torniamo a The Sisters Brothers. Tratto dal romanzo del 201, Arrivano i Sisters, di Patrick de Witt, è commissionato a Jacques Audiard proprio da uno dei due interpreti che aveva acquisito i diritti del film, John C. Relly. È stato girato in Almeria, Spagna, proprio dove Sergio Leone ha realizzato molti suoi film, dando vita al filone dei cosiddetti spaghetti western, o western all’italiana. Ecco, ora Audiard, partendo da quegli stessi set-paesaggi di Leone, dà origine al western alla francese, o escargot western, se vogliamo. L’autore dice di non essere mai stato interessato al genere western, ma in realtà stratifica il suo film di tutto l’immaginario sedimentato dalla lunga, gloriosa tradizione di questo genere cinematografico. Nello stesso tempo lo innova profondamente, sul piano dei contenuti ma soprattutto della forma, delle inquadrature, sequenze, movimenti della macchina da presa. Da oggi, chiunque voglia girare un western non potrà prescindere dalla lezione di Audiard. È la storia di due fratelli che di cognome fanno Sisters, conosciuti e temuti in tutto il West come spietati killer al sevizio del Commodoro. Devono rintracciare uno studioso immigrato,  Hermann Kermit Warm, che ha inventato una formula chimica per estrarre con più rapidità le pepite d’oro daifiumi. Non è uno che si vuole arricchire personalmente, ma lo fa per dare vita a un Falansterio, a una comunità umana di pace e giustizia sociale. A lui si associa John Morris, anche egli prima al servizio del Commodoro, ma con la passione della scrittura. Questo personaggio ci richiama alla mente lo scrittore della Beat Generation, Jack Kerouac, e il suo romanzo On the Road, soprattutto per il tema del ritorno a casa. Il grande tema antico del nostos, del ritorno, dal greco Ulisse all’americano Kerouac. Dei due fratelli Sisters, Eli è il più grande e più saggio; Charlie il più folle, violento, ubriacone, puttaniere. Il film si può raccontare tutto benissimo, ma qui ci rifiutiamo di procedere oltre, perché va assolutamente visto. Giganteggiano attorialmente J. C. Relly, nel ruolo di Eli, e Joaquin Phoenix, in quello di Charlie. Ottima, però, anche la prova d’attore prova d’attore degli due interpreti: Jake Gyllenhaal, in quello di John Morris; Riz Ahmed, in quello di H. K. Warm.

Una rassegna quella di Rendez-Vous che conclude questa sua IX edizione con significativi risultati di ideazione e realizzazione e che le consentirà di innalzare ancora più –in quella del prossimo anno – la navicella della qualità e del consenso di pubblico.

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