La poesia e il suo doppio

La storia civile, politica italiana, dalla fine degli anni ‘60 a oggi, tessuta sotto la filigrana della poesia d’avanguardia di Daniela Ripetti-Pacchini. Questo stupore ti coglie all’improvviso leggendo pagina dietro pagina, La poesia e il suo doppio, uscito in questi giorni per EdiPsy Editrice,  che raccoglie un’ampia messe della produzione poetica di Ripetti-Pacchini. Non una semplice poetessa, ma la canto-poetessa, che – con la rivolta della sua voce, dei suoi versi, di due tableaux vivant del Living Theatre accanto a lei – placò la spiaggia di Castel Porziano a fine giugno del 1979, restituendo di colpo alla selvaggezza, alla selvaggia gettatezza giovanile del ‘77, la suadenza inascoltata della propria ribellione. E che risuonò nei festival dei due anni successivi nel Parco di Villa Borghese a Piazza di Siena e all’Università di Roma. Se c’è un doppio nella totalità poetica, non in senso quantitativo, ma qualitativo, configurata dentro questo testo è proprio l’inseparabilità tra alto valore letterario, gesto poetico teatrale della voce, tessitura metrico-politica implacabile. Il doppio è anche un rovescio, come quello di un tessuto sotto, dietro il dritto. Senza l’uno non c’è l’altro, anzi, non c’è niente. L’uno e il doppio, il rovescio e il dritto si mostrano, si celano, si dicono, si tacitano ed eccitano a vicenda, si scambiano ruolo e ritmo semantico. Di quella strada di ricamatori autonomi di tumulti e molotov che era Via dei Volsci a Roma negli anni ‘70, Ripetti-Pacchini scuce il dritto strillato sulle pagine dei giornali per svelarne il rovescio. “Strada nera/ strada di non rose/… – è sera – / sul marciapiede sudato/ passa e ripassa una/ ronda allegra…”. D’altronde chi meglio di lei poteva conoscere la necessità esistenziale del rovescio. Vittima di un diritto, di una montatura che giornali e giustizia le cucirono addosso, ha dovuto passare quasi due anni nel carcere romano di Rebibbia a scucirlo, per  mostrare la verità nel rovescio. Di questa sua dolorosa vicenda esistenziale Ripetti-Pacchini parla nel libro dello scorso anno Una giovinezza rubata, che Stampa Critica ha recensito e il cui richiamo trovate ancora nella Home Page della testata. Quel testo è una ricostruzione analitica di impeccabile metodo storico e pregio storiografico su cosa è stato l’ultimo cinquantennio della politica italiana alla luce di quella internazionale, americana in primo luogo. Tale materia è quella che gravita sotto, tra, dentro gli spazi vuoti che separano le parole, gli accapo della versificazione, i puntini di sospensione, i tagli improvvisi de La Poesia e il suo Doppio. I due testi ripettiani, uno storico-etico, l’altro poetico-estetico, sono uno il rovescio, il doppio, l’ombra e il sole dell’altro. E forse entrambi sono la rebis,  la res bis, la cosa doppia di ciò che manca nelle due autobiografie poetica e politica di Ripetti-Pacchini. La sua prestigiosa attività di psicoterapeuta, cui si sono affidate anche squadre nazionali ufficiali di sport che lei ha condotto al successo.

Il volume si articola in tre parti, tre grandi metriche spazio-poetico-temporali – 1968-81, 1981-94, 1995-2016 – intessute di foto, ritagli di giornali, locandine, dediche poetiche, recensioni, che ci si porgono come delle vere madaleine proustiane, restituendo a chi c’era od offrendo a chi non c’era il sapore, le eco, le asprezze, gli entusiasmi, i gas lacrimogeni, il pianto delle stragi di quel tempo. L’altezza poetica dell’autrice si nutre anche di una lingua e di riferimenti relativi a tutta la nostra grande poesia d’ogni tempo, a quella internazionale contemporanea, alla cultura filosofica. Anche l’apparato critico e bibliografico va considerato parte integrante della lettura, perché anch’esso è doppio, rovescio, ombra. Illuminanti sono alcune note, nelle quali Ripetti-Pacchini riporta le variazioni vocali dei suoi versi, trattandosi di poesie da reading, da lettura in grandi o piccoli spazi: una spiaggia del litorale romano, il galoppatoio di un parco pubblico, l’intimità di un teatro off come il Beat 72, nei quali, però, l’impatto scenico-acustico è ugualmente parte dell’atto poetico.

Le sue istantanee non sono solo immagine, luce che folgora l’istante e lo sospende, ma sono fotogrammi di voce, frammenti di senso tra i quali transita l’intero film della sua poesia. Un film, però, senza inizio e fine, perché rovescio, ombra, doppio, si intridono all’infinito di riverberi semantici ed eco originarie – eppure inaudite.

Piegami il labbro alla/ felicità, cantami, soffiami

incantami/ con un bacio o un/ boato io muoio/ io sono sdato da/ una guerra civile/ Vieni salvami/ incastrami, contro/ stoviglie e isterie/ di riso ‘e chianto/ Proviamo!

di Riccardo Tavani

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