Parla il compagno di Laila, l’operaia morta sul lavoro a Modena: «Volevamo sposarci in Puglia»

Si chiama Manuele il compagno di Laila El Harim, l’operaia incastrata in una fustellatrice a Camposanto. Un’altra morte sul lavoro difficile da accettare, una vita spezzata, un futuro cancellato, una figlia che non rivedrà più la sua mamma. Mille progetti svaniti nel nulla.

E così Manuele racconta: «Mi ha avvertito alle 9 di mattina, con una telefonata, un mio ex datore di lavoro, socio dell’impresa dove circa un paio di mesi fa era stata assunta la mia compagna. Non è riuscito a dirmelo chiaramente: “Laila ha avuto un brutto infortunio, corri qui…”. Non ha aggiunto altro. Ma io ho capito tutto. Anche io lavoro come operaio specializzato, sono stampatore offset a Bomporto. Dopo quella telefonata mi si è fermato il cuore in gola, ho rivissuto come in un film la nostra vita insieme e quella che ancora avremmo dovuto vivere. In circa venti minuti, percorrendo i 15 chilometri nelle stradine che s’incurvano qui nelle campagne della Bassa Modenese, ho raggiunto Camposanto, la sede della «Bombonette», l’impresa che produce imballaggi per dolciumi per cui lavorava la mia Laila, italiana di origine marocchina e mamma della nostra splendida figlia Rania, di soli cinque anni.

Quando sono arrivato c’erano i mezzi dei vigili del fuoco e le auto dei carabinieri. Non c’erano ambulanze… Ho capito tutto. Un carabiniere è venuto verso di me. E’ stato garbato, mi ha detto con gentilezza che la mia compagna era morta per le conseguenze di un incidente dentro l’impianto, alla fustellatrice. Quando sono entrato nel capannone, lei era coperta da un lenzuolo. Volevo e dovevo starle vicino almeno un’ultima volta… almeno l’ultima volta».

Il racconto di Manuele, si ferma qui, per un attimo. Sguardo perso nel vuoto, immagini che si sovrappongono, il pensiero di ciò che sarà, di come potrà affrontare il mondo senza la sua Laila e di come dirlo alla figlia.

Poi riprende perché tutto ciò che sta accadendo è troppo per lui.

«Ci siamo conosciuti il primo luglio 2001, eravamo nello stesso posto di lavoro. Ci siamo fidanzati poco dopo senza più lasciarci, sempre insieme a progettare il nostro futuro. Non eravamo sposati ma avevamo già deciso di farlo il prossimo giugno, in Puglia, la regione da cui proviene mio padre che si è stabilito qui, nella Bassa Modenese dopo aver trovato lavoro come operaio alla Fiat e aver sposato una modenese. Proprio il mese scorso avevo regalato a Laila l’anello. Quelle nozze davanti nostra figlia sarebbero state bellissime. Poi magari un giorno avremmo coronato il sogno dell’acquisto di una casa al mare. A Laila piaceva tantissimo il mare».

Ancora un silenzio, un intervallo, una fuga della mente a raccogliere ricordi, immagini, sensazioni, emozioni. Il tempo che si ferma. Silenzio.

Poi si desta, sembra debba continuare più per un suo sfogo personale che per chi lo intervista. Ascoltare la sua stessa voce lo fa sentire vivo con un senso di colpa nei confronti della donna che ama. Perché l’amore, quello, nessuno glielo potrà portare via.

«Per spiegare a Rania che la mamma non c’è più, sono stato consigliato da una psicologa del Comune di Bastiglia, dove vivo. A volte le cose più difficile possono diventare le più semplici. I bambini capiscono, assorbono tutto. Le ho detto cosa era successo, senza giri di parole, con attenzione certo, le ho detto che la mamma dopo un incidente era andata in cielo. Che però da lì ci avrebbe osservato e protetto. Avevo gli occhi lucidi. Lei però ha capito, mi ha abbracciato forte, stretto, aggrappandosi a me a lungo.

Ma c’è una cosa che voglio dire. Laila si trovava bene nel posto in cui lavorava, questo si. Però delle morti sul lavoro se ne parla poco e non si fa niente. Anche nel suo caso le macchine dovevano funzionare come si deve. In tutti i casi. Non si può morire così. Capisco la voglia di produttività, di fare sempre di più ma non si può avere tutto. La sicurezza viene prima, prima di ogni altro interesse o guadagno. Ogni giorno attorno a quella fustellatrice c’era un elettricista, c’erano dei problemi. Laila, inoltre, doveva occuparsi dell’avviamento su tutte le apparecchiature, istruendo anche un apprendista che martedì purtroppo era assente perché doveva vaccinarsi. Se ci fosse stato, chissà, forse tutto questo non sarebbe successo.

Lei lavorava anche 11 ore. Magari le dicevano: “Siamo in ritardo, puoi fare qualcosa di più?” Lei lo faceva. Magari la sera tornava a casa stanca. Però era sempre serena e allegra. Io credo solo che si debba, in qualche modo, andare oltre al senso dell’inchiesta. Devono essere le autorità, e la politica, a pretendere la verità su cosa è successo alla mia Laila. Glielo dobbiamo. Non si può morire sul lavoro, non deve succedere più. Mai più a nessuno».

di Stefania Lastoria 

Print Friendly, PDF & Email