Una delle dichiarazioni più vergognose della storia

Il mondo assiste sconcertato alla ritirata delle truppe NATO dall’Afghanistan ed alla resistibile presa del potere da parte dei talebani, e si chiede quali siano le ragioni di un comportamento così strano, quasi surreale. Il ritiro delle truppe USA da Kabul (ma anche italiane, britanniche, francesi e di altri paesi NATO) è stato paragonato alla fuga da Saigon nel ‘75. Ma allora c’era stata una sconfitta militare, incredibile e inaspettata, nella guerra asimmetrica tra il gigante americano e i guerriglieri di Ho Chi Minh e del generale Giap; oggi, invece, le truppe che erano andate a difendere gli interessi delle democrazie occidentali se ne vanno per una decisione politica, dopo aver concordato (proprio così!) con i talebani le modalità d’uscita.

Ma perché ci siamo impegnati, e perché ce ne andiamo dall’Afghanistan?

L’operazione era nata nel 2001 come risposta agli attentati contro le Torri Gemelle e il Pentagono, ultimi e più eclatanti di una serie non piccola di attentati contro gli USA (quelli in Europa, in realtà, sono venuti qualche anno dopo). L’assunto era che in territorio afgano e con l’aiuto dei talebani venissero indottrinati, armati e addestrati i terroristi, e che questi avessero lì i loro rifugi e basi logistiche.

Si è trattato di un impegno molto grande, costato agli USA 2.300 morti e 2.261 miliardi di dollari, cui si aggiungono i caduti e le spese degli altri sette Paesi alleati; non ultima l’Italia, con 53 morti e 8,9 miliardi.

Dopo 20 anni e un simile costo, si è tornati rapidissimamente alla situazione quo ante: l’Afghanistan è di nuovo in mano ai talebani, le donne saranno nuovamente nascoste dal burqa, i talebani possono riprendere ad addestrare terroristi e ad ospitare le loro basi. Tutte quelle vite e quei miliardi sono stati buttati alle ortiche.

I commenti della stampa d’oltreoceano sono spietati: secondo il Wall Street Journal “la dichiarazione del presidente Biden di lavarsi le mani dall’Afghanistan… merita di essere considerata una delle più vergognose della storia”.

Nonostante Biden oggi lo neghi, nei 20 anni c’è stata anche una politica di state building, con 60 miliardi di dollari spesi a favore di scuole, sanità, società civile afghana, che di nuovo elegge un parlamento a suffragio universale. In questi vent’anni le donne hanno avuto di nuovo il diritto di votare e di istruirsi, la mortalità infantile si è dimezzata e la vita media delle donne si è allungata sensibilmente rispetto al 2001. Certo, 60 miliardi sono meno degli 83 spesi per esercito e polizia afgani, ma sono una cifra davvero notevole per un Paese povero come l’Afghanistan.

Sebbene le vere ragioni della guerra in Afghanistan mi siano poco chiare, il cambiamento che stava iniziando in quella terra rendeva, almeno per me, più accettabile la presenza occidentale.

In particolare, era iniziato un profondo cambiamento della condizione femminile, sebbene non si fossero ancora fermate le violenze da parte dei talebani, ancora attivi nel territorio, e della parte più retriva della società.

Nel 2008 a quattordici studentesse e insegnanti è stato lanciato dell’acido in faccia, a Kandahar, perché colpevoli di  andare a scuola.

Nel 2013 Sushmita Banerjee è stata uccisa perché si era opposta ad alcuni dettami della sharia talebana.

Mena Mangal è stata uccisa nel 2019 perché attivista per i diritti umani e per la parità di genere.

Cinque giornaliste sono state uccise a Kabul e Jalalabad per il solo fatto di voler fare quel mestiere e nel complesso sarebbero 30 i giornalisti uccisi negli ultimi dieci anni.

Nel 2012 ci sono stati 240 casi di delitti d’onore, il 21% commessi dai mariti, il 7% dai fratelli, il 4% dai padri e il resto da altri maschi autonominatisi giudici e carnefici.

Oggi la situazione è, se non più grave, più pericolosa, dal momento che molte donne hanno assaporato un po’ di libertà, hanno studiato, imparato a guidare, si sono impegnate nel lavoro e nella politica; il 27% dei parlamentari sono donne, alcune ricoprono i ruoli di ministro, sindaco, magistrato. Ed ora sono obiettivi indifesi per le armi dei talebani.

Tra questi obiettivi, nei giorni scorsi c’è stato anche il comico Nazar Mohammad, prelevato da casa e ucciso dai talebani; si dice che non abbia mai smesso di prenderli in giro, fino all’ultimo respiro.

Ho avuto modo di vedere un filmato, ripreso con un telefonino per le vie di Kabul la scorsa settimana. Si vede una donna fermata da un gruppo di talebani armati. Dapprima la donna cerca di ribellarsi, protesta; poi è costretta ad inginocchiarsi a capo chino davanti ad uno di loro, che sembra farle una sorta di predica, a giudicare dai gesti e dal tono. Tutto intorno altri si muovono, guardano e riprendono la scena con gli smartphone. Alla fine un uomo, che era rimasto silenzioso e immobile dietro alla donna, estrae una pistola e, freddamente, le spara un colpo alla testa, uccidendola. Gli astanti esultano alla morte della donna, inneggiando ad Allah.

Ci sono altri filmati nel web, di altri crudeli omicidi, ma vederne uno è già troppo.

Ecco l’Afghanistan lasciato dal ritiro della NATO. Una realtà che sembra di un altro pianeta, abitato da esseri non umani, e che invece ci appartiene.

In sostanza, il ritiro odierno fa capire che il motivo ufficiale dell’invasione, cioè la libertà duratura (Enduring Freedom, secondo il nome ufficiale dell’impresa), era solo una scusa: qui non c’è più alcun fievole segno di libertà. C’è, se mai, il ritorno di una duratura ferocia liberticida.

Altro fatto misterioso è che in vent’anni di permanenza armata in quella terra nulla è stato fatto contro le due industrie più importanti dei talebani e non solo: la coltivazione del papavero da oppio e la produzione di metanfetamine a partire dagli arbusti di efedra, che crescono facilmente sugli altipiani di quella terra.

Se è vero che il terrorismo di matrice islamista ha fatto molti morti, la diffusione di eroina e metanfetamina nei paesi occidentali è molto più dannosa, destinata com’è al consumo delle fascie più giovani della società.

Se il ritiro è stato definito vergognoso, non ci sarebbe stata nessuna vergogna a decidere, vent’anni fa, di non intervenire in Afghanistan. Nessuno ha mai deciso di invadere la Germania nazista per ciò che avveniva al suo interno.

Ma ora abbiamo capito alcune cose.

Sono poco credibili i motivi ufficiali dell’intervento armato, cioè la lotta al terrorismo e l’istaurazione della democrazia.

Sono misteriosi ed incerti i motivi economici, basati sul controllo di un territorio in cui avrebbero dovuto passare gasdotti e oleodotti, peraltro non realizzati in questi venti anni, e dai cui progetti le società petrolifere americane si sono già da tempo sganciate.

Sono diventati evanescenti i motivi di politica estera, tendenti a non lasciare quelle terre in mano a potenze considerate concorrenti o pericolose: se ci fossero stati allora, quei motivi, non sarebbero venuti meno adesso.

Resta in piedi la sola ipotesi che le finalità dell’impegno e del disimpegno americano siano stati banalmente di politica interna. C’è chi sostiene, infatti, che il vero motivo di allora consistesse nella ricerca del consenso elettorale, dopo che gli attentati avevano dimostrato la vulnerabilità e debolezza degli USA, se non l’incapacità del governo federale.

Occorreva mostrare i muscoli per recuperare consenso interno e peso internazionale.

Oggi il reale obiettivo sarebbe interrompere l’ingente costo economico della missione Enduring Freedom, non più conciliabile con le esigenze di bilancio, per l’imprevisto impegno dell’American Rescue Plan, che prevede 1.900 miliardi di dollari di investimenti e sostegno sociale per la ripresa post pandemica.

Forse è così, ma forse non sapremo mai tutta la verità, perché la politica – in tutto il mondo – è troppo abituata a dire solo la “mezza messa”. Quella americana, come quella talebana, come quella di casa nostra.

Intanto, un nuovo attentato ha insanguinato, presso l’aeroporto di Kabul, questa sciagurata transizione, accomunando nel lutto americani, afgani e perfino talebani.

Troppe cose abbiamo sbagliato, troppe cose non abbiamo capito: questa ammissione sarebbe stata doverosa da parte di chi ha responsabilità in questa vicenda. Non mi riferisco soltanto a Biden, ma ai tanti leader politici coinvolti, compresi i capi dei taliban e dell’ISIS-K; anche a quei poveri cristi musulmani che si sono uccisi per uccidere, illudendosi di trovare, così, il Paradiso.

di Cesare Pirozzi 

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